Mamma Julie, immagino fosse lei, cominciò a cantare. Altre voci la seguirono:
Papà Legba, ouvri bayé!
Papà Legba, Attibon Legba ouvri bayé pou pou passé! Papà Legba…
Il coro continuava, e continuava e continuava. Cominciai a sentirmi assonnato. Bevvi dell’altro rum e mi venne ancor più sete, così ne bevvi dell’altro.
Non sono sicuro di quanto tempo fosse passato, quando successe. I danzatori avevano baciato il palo e cantato e scosso zucche e versato dell’acqua, e un paio di hounsi erano posseduti e parlavano con completa incoerenza, e il disegno fatto a farina sul pavimento era tutto confuso, e c’era un mucchio di fumo nell’aria, e io stavo appoggiato contro il muro e immagino che gli occhi mi si erano chiusi per un minuto o due.
Il suono nacque da un angolo inaspettato.
Hasan gridò.
Un lungo urlo penetrante che mi spinse in avanti, mi fece perdere l’equilibrio, e mi ributtò di nuovo contro il muro con un tonfo.
Il tamburo continuò a risuonare, senza perdere una sola battuta. Però alcuni dei danzatori si fermarono a guardare.
Hasan era balzato in piedi. Aveva i denti scoperti e gli occhi ridotti a fessure, e sul suo viso si leggevano, sotto la pellicola di sudore, i segni evidenti d’uno sforzo enorme.
La sua barba era una punta di lancia arroventata.
Il suo mantello, disteso alto contro certe decorazioni murali, era un paio d’ali nere.
Le sue mani, in un’ipnosi di lenti movimenti, stavano strangolando un uomo inesistente.
Suoni animaleschi venivano dalla sua gola. Continuò a strozzare l’essere inesistente.
Alla fine sobbalzò e le sue mani s’aprirono. Dos Santos gli fu quasi immediatamente a fianco, a parlargli, ma ormai abitavano due mondi differenti.
Uno dei danzatori prese a lamentarsi morbidamente. Altri si unirono a lui, e altri ancora.
Mamma Julie si staccò dal cerchio e venne verso di me, mentre Hasan ricominciava da capo tutta quanta la pantomima, questa volta però con una mimica più elaborata.
Il tamburo continuò il suo ritmo regolare e ossessionante.
Papà Joe non alzò nemmeno lo sguardo.
— Un brutto segno — asserì Mamma Julie. — Cosa sai di quest’uomo?
— Molte cose — risposi, schiarendomi il cervello con uno sforzo di volontà.
— Angelsou — disse lei.
— Cosa?
— Angelsou — ripeté. — È un dio nero, un dio da temere. Il tuo amico è posseduto da Angelsou.
— Spiegati, per favore.
— Viene raramente al nostro hounfor. Non è desiderato, qui. Coloro che egli possiede diventano assassini.
— Penso che Hasan stesse provando una nuova miscela per pipa. Oppio mutante o qualcosa del genere.
— Angelsou — disse lei di nuovo. — Il tuo amico diventerà un assassino, perché Angelsou è un dio della morte, e fa visita solo ai suoi simili.
— Mamma Julie — replicai, — Hasan è un assassino. Se tu avessi un pezzo di gomma per ogni uomo che ha ucciso e tentassi di masticarli tutti, sembreresti uno scoiattolo. È un assassino professionista; nei limiti consentiti dalla legge, di solito. Dato che il Codice del Duello domina sul continente, svolge qui gran parte del suo lavoro. Si mormora che in certe occasioni commetta uccisioni illegali, ma la cosa non è mai stata provata.
«Così dimmi — terminai, — Angelsou è il dio degli assassini dilettanti o dei professionisti? Ci dovrebbe essere una differenza tra le due cose, non è vero?».
— Non per Angelsou — rispose lei.
Allora Dos Santos, nell’intento d’interrompere lo spettacolo, afferrò entrambi i polsi di Hasan. Provò a staccargli le mani l’una dall’altra, ma be’… provate a piegare una volta o l’altra le sbarre d’una gabbia, e vi farete un’idea.
Attraversai la stanza, seguito da diversi altri. Fu un evento fortunato, perché Hasan si era finalmente accorto che gli stava di fronte qualcuno, e sciolse il nodo delle sue mani. Poi estrasse da sotto il mantello uno stiletto a lunga lama.
Che poi avesse effettivamente intenzione o no di usarlo su Dos Santos o su qualcun altro è argomento di poca importanza, perché in quel momento Myshtigo s’infilò sul pollice la sua bottiglia di Coca e colpì Hasan sotto l’orecchio. Quello cadde in avanti e Dos Santos lo afferrò, e io gli tolsi la lama che stringeva tra le dita, e Myshtigo finì la sua Coca.
— Interessante cerimonia — osservò il vegano, — non avrei mai sospettato che quell’omaccione avesse sentimenti religiosi tanto forti.
— Questo dovrebbe insegnarle che non si può mai essere troppo sicuri, no?
— Sì. — Con un gesto circolare della mano indicò i presenti. — Sono tutti panteisti, non è vero?
Scossi la testa. — Animisti primitivi.
— Che differenza c’è?
— Be’, quella bottiglia di Coca che lei ha appena vuotata finirà sull’altare, o pé come lo chiamano, e servirà da ricettacolo per Angelsou, dato che ha avuto una mistica relazione col dio. Questo è il modo di vedere degli animisti. Un panteista si sarebbe arrabbiato vedendo arrivare alla cerimonia persone non invitate, tanto più con la confusione che abbiamo fatto. Un panteista poteva addirittura sentirsi spinto a sacrificare gli intrusi ad Agué Woyo, dio del mare, pestandogli per bene la scatola cranica col dovuto cerimoniale e scaraventandoli poi giù dal molo. Comunque non ho intenzione di andare a spiegare a Mamma Julie che tutta questa gente che ci sta fissando è animista. Mi scusi un attimo.
Non è che le cose fossero tanto spaventose, ma volevo scuoterlo un po’. Penso d’esserci riuscito.
Dopo essermi scusato ed aver augurato la buona notte, raccattai Hasan. Era svenuto al cento per cento, e io ero l’unico abbastanza robusto da poterlo trascinare.
Nelle strade non c’era nessuno all’infuori di noi; e il grande bastimento di Agué Woyo stava fendendo le onde al disotto del bordo orientale del mondo, e innaffiava il cielo di tutti i suoi colori preferiti.
Dos Santos, al mio fianco, disse: — Forse avevi ragione. Forse non dovevamo venire.
Non mi preoccupai di rispondergli, ma Ellen, che camminava avanti con Myshtigo, si fermò, si girò e replicò: — Sciocchezze. Se non ci fossimo stati, avremmo perso il magnifico, drammatico monologo di quel beduino. — Ormai ero a pochi centimetri da lei, e le sue mani batterono e si strinsero attorno alla mia gola. Non esercitò alcuna pressione, ma fece smorfie orribili e disse: — Uh! Mm! Sono posseduta da Angelsou, e la tua ora è venuta. — Poi rise.
— Lasciami andare la gola o ti butto addosso quest’arabo — ribattei, paragonando il color arancio-scuro dei suoi capelli con quello arancio rosa del cielo dietro di lei e sorrisi. — È anche pesante — aggiunsi.
Un secondo prima di mollare la presa, lei esercitò una piccola pressione (leggera ma troppo forte per essere uno scherzo), e poi fu di nuovo al braccio di Myshtigo e riprendemmo a camminare. Be’, le donne non mi schiaffeggiano mai perché io porgo sempre l’altra guancia e loro hanno paura del fungo, e immagino che quindi una breve stretta alla gola sia l’unica alternativa.
— Paurosamente interessante — disse Parrucca Rossa. — Mi sentivo strana. Come se dentro di me qualcosa stesse danzando con loro. Era una strana sensazione. Ballare non mi piace proprio; no, non mi piace nessun tipo di ballo.
— Che razza d’accento hai? — l’interruppi. — Sono anni che cerco d’identificarlo.
— Non so — disse. — Sono un misto d’irlandese e francese. Sono vissuta nelle Ebridi, e anche in Giappone, e in Australia, fino a diciannove anni…
Hasan rantolò proprio allora e mosse i muscoli e io sentii un notevole dolore nella spalla.
Lo adagiai per terra e gli diedi una frugatina. Trovai due coltelli da lancio, un altro stiletto, un elegantissimo coltello gravitazionale, un pugnale seghettato, lacci da strangolamento, e una cassettina di metallo contenente diversi veleni e fialette di liquido che non desideravo studiare troppo da vicino. Mi piaceva il coltello gravitazionale, così lo tenni per me. Era un Coricama e molto elegante.
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