«No, non è per questo che ho capito che non eri il mio amante» disse Elena. Pareva leggermi nel pensiero. «È solo una mia osservazione.»
«Ma allora…»
«Sì» disse Elena. «Era il modo in cui mi hai amato, Hock-en-bear-eeee.»
A questo non avevo niente da dire e non sarei riuscito a parlare in modo chiaro nemmeno se l’avessi avuto.
Elena sorrise di nuovo. «Paride mi ebbe per la prima volta non a Sparta, dove mi conquistò, né a Ilio, dove mi portò, ma nella piccola isola di Cranae, durante il viaggio per venire qui.»
Non conoscevo nessuna isola chiamata Cranae e la parola significava semplicemente "rocciosa" in greco antico; forse Paride aveva interrotto il viaggio e si era fermato in una piccola isola rocciosa senza nome per fare il suo comodo con Elena senza che l’equipaggio della nave guardasse. Ciò significava che Paride era… impaziente. "Come eri tu, Hockenberry" mi disse una vocina non del tutto dissimile da quella della mia coscienza. Troppo tardi, per una coscienza.
«Lui mi ha avuto… e io ho avuto lui… centinaia di volte, da allora» disse piano Elena. «Mai però come stanotte. Mai come stanotte.»
Rimasi confuso e inorgoglito. Era un complimento? No, un attimo… è assurdo. Omero canta di Paride quasi divino nella bellezza fisica e nel fascino, un grande amante, irresistibile a donne e dee insieme, e ciò significava che Elena voleva solo dire…
«Tu…» disse lei, interrompendo i miei pensieri confusi «tu eri… schietto.»
Schietto. Mi strinsi di più nella veste e guardai in direzione della tempesta in arrivo per nascondere l’imbarazzo. Schietto.
«Sincero» disse Elena. «Molto sincero.»
Se non si fosse zittita subito, smettendo di cercare sinonimi per patetico, forse le avrei strappato di mano il pugnale e mi sarei tagliato la gola da solo.
«Gli dèi ti hanno mandato qui per me?»
Pensai di nuovo di mentire. Nemmeno quella donna così risoluta avrebbe sventrato un uomo in missione per conto degli dèi. Ma ancora una volta decisi di non farlo. Elena di Troia pareva quasi telepatica, tanto era abile a leggermi il pensiero. E dire la verità era piacevole, tanto per cambiare. «No» risposi. «Non mi ha mandato nessuno.»
«Sei venuto qui solo perché volevi portarmi a letto?»
"Be’, almeno non ha usato di nuovo parole sconce" pensai. «Sì» risposi. «Cioè, no.»
Elena mi guardò. Da qualche parte, nella città, un uomo rise forte, poi una donna lo imitò. Ilio non dormiva mai.
«Insomma… mi sentivo solo» dissi. «Sono stato qui per un’intera guerra, da solo… nessuna donna con cui parlare, nessuna donna da toccare…»
«Hai toccato me a sufficienza.»
Dal tono non avrei saputo dire se si trattava di sarcasmo o di un’accusa. «Sì» ammisi.
«Sei sposato, Hock-en-bear-eeee?»
«Sì. No.» Scossi di nuovo la testa. Di sicuro facevo la figura del perfetto idiota, con Elena. «Credo d’essere stato sposato, ma se lo sono stato, mia moglie è morta.»
« Credi d’essere stato sposato?»
«Gli dèi mi hanno portato sul monte Olimpo attraverso il tempo e lo spazio» dissi. Sapevo che non avrebbe capito, ma me ne fregai. «Credo di essere morto nell’altra mia vita e gli dèi, non so come, mi hanno riportato indietro. Ma non mi hanno restituito tutti i ricordi. Mi tornano a tratti immagini della vita reale, della vita precedente… vanno e vengono, come sogni.»
«Capisco» disse Elena. Dal tono compresi che, sorprendentemente, capiva davvero. «Servi un dio o una dea in particolare, Hock-en-bear-eeee?»
«Faccio rapporto a una delle Muse» risposi «ma solo ieri ho saputo che è Afrodite a controllare il mio destino.»
Elena alzò gli occhi, sorpresa. «E così ha controllato il mio» disse piano. «Solo ieri, quando ha salvato Paride dalla furia di Menelao e l’ha riportato qui nel nostro letto, Afrodite mi ha ordinato di andare da lui. Quando ho protestato, si è arrabbiata e ha minacciato di rendermi il bersaglio dell’odio feroce, fulminante… parole sue… di troiani e achei.»
«La dea dell’amore» commentai piano.
«La dea della lussuria» disse Elena. «E di lussuria ne so parecchio, Hock-en-bear-eeee.»
Di nuovo non seppi che cosa dire.
«Mia madre era Leda, detta la Figlia della Notte» riprese Elena, in tono colloquiale. «Zeus venne a lei in forma di cigno e la scopò… un cigno enorme, tutto eccitato. Nella mia casa c’era un dipinto murale che raffigurava i miei due fratelli più anziani e un altare a Zeus e me in un uovo pronto a schiudersi.»
Non riuscii a evitarlo… mi misi a ridere. Poi contrassi i muscoli dello stomaco, aspettando che fossero trapassati dalla punta del pugnale.
Invece Elena reagì con un gran sorriso. «Sì» disse. «So bene che esistono i rapimenti e che si è pedine degli dèi, Hock-en-bear-eeee.»
«Già. Quando Paride venne a Sparta…»
«No» m’interruppe Elena. «Quando avevo undici anni, Hock-en-bear-eeee, fui rapita… portata via dal tempio di Artemide Orthia… da Teseo, colui che unì le comunità dell’Attica nella città di Atene. Teseo mi mise incinta e gli generai una figlia, Ifigenia, che non potevo guardare con amore e che affidai a Clitennestra perché l’allevasse insieme con suo marito Agamennone come figlia loro. I miei fratelli mi salvarono da quel matrimonio e tornai a Sparta. Teseo allora partì con Ercole per fare guerra alle Amazzoni e trovò il tempo d’invadere l’inferno, di sposare una guerriera amazzone e di esplorare il labirinto del Minotauro a Creta.»
Mi girava la testa. Ogni greco, troiano e dio aveva una storia e non vedeva l’ora di raccontarla. Ma cos’aveva a che fare, tutto questo, con…
«Conosco la concupiscenza, Hock-en-bear-eeee» disse Elena. «Il grande re Menelao mi reclamò in sposa anche se uomini come lui amano le vergini, amano più della vita la propria linea di sangue, nonostante fossi merce insozzata in un mondo d’uomini che ama così tanto le sue vergini. E poi Paride, incitato da Afrodite, venne a rapirmi di nuovo per portarmi a Troia ed essere il suo… bottino.»
Interruppe il racconto e parve studiarmi. Non trovavo niente da dire. Sotto le sue parole fredde, ironiche, c’era uno smisurato abisso d’amarezza. No, non amarezza, capii, guardandola negli occhi. Tristezza. Una terribile, stanca tristezza.
«Hock-en-bear-eeee» continuò Elena «credi che sia la più bella donna al mondo? Sei venuto qui per rapirmi?»
«No, non sono venuto a rapirti. Non avrei nessun posto dove portarti. I miei stessi giorni sono contati dall’ira degli dèi… Ho tradito la mia Musa e la sua padrona, Afrodite; e quando Afrodite guarirà dalle ferite inflìttele ieri da Diomede, mi spazzerà dalla faccia della terra com’è vero che siamo qui.»
«Sì?» disse Elena.
«Sì.»
«Vieni a letto… Hock-en-bear-eeee.»
Mi sveglio nel grigiore che precede l’alba, dopo solo qualche ora di sonno al termine delle nostre ultime due tirate amorose, ma mi sento perfettamente riposato. Giro le spalle a Elena, ma in qualche modo so che pure lei è sveglia, nel largo letto dalle colonnine intagliate.
«Hock-en-bear-eeee?»
«Sì?»
«Come servi Afrodite e gli altri dèi?»
Rifletto un minuto e poi mi giro. La donna più bella del mondo se ne sta lì nella fioca luce, appoggiata al gomito, con i lunghi capelli scuri, scompigliati dalle ore d’amore, che le scendono intorno alla spalla nuda e al braccio, con gli occhi, pupille larghe e scure, fissi nei miei.
«In che senso?» chiedo, pur sapendo cosa vuole dire.
«Perché gli dèi ti hanno portato attraverso il tempo e lo spazio, come hai detto tu, per servirli? Cosa sai che a loro occorra?»
Chiudo gli occhi per un momento. Come posso spiegarglielo? Se rispondessi sinceramente, sarebbe follia. Ma, come ho ammesso prima, sono stufo di mentire. «So alcune cose sulla guerra in corso» dico. «Conosco alcuni eventi che accadranno… che potrebbero accadere.»
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