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Charles Sheffield: Le guide dell'infinito

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Charles Sheffield Le guide dell'infinito

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Solo una minima parte dell’umanità riuscì a sfuggire alla catastrofe nucleare che nel 21° secolo devastò la Terra, rifugiandosi in primitive colonie orbitali attorno al pianeta. Ma una volta vinta la battaglia per la sopravvivenza, cominciò il grande esodo verso nuovi mondi nelle zone più remote dello spazio. Dopo vari millenni ecco incombere su questi mondi la presenza degli Immortali, esseri che possiedono strani legami con la vecchia Terra, apparentemente in grado di estendere la propria vita all’infinito e di superare distanze di anni luce in pochi giorni. Sul pianeta Pentecoste, alcuni lontanissimi discendenti dell’umanità cercano di scoprire la vera natura degli Immortali, intuendo appena che il contatto con tali creature li porterà ad acquisire conoscenze inimmaginabili, tra cui il segreto dell’S-spazio normale. Ma si tratta solo del principio, perché seguono altre rivelazioni sull’intera storia dell’umanità, dall’origine alla distruzione della Terra e alla secolare diaspora nello spazio, che scatenano nuove inquietudini e rilanciano appassionanti interrogativi. Qual è infatti il segreto dell’enigmatico Punto di Convergenza, una zona lontanissima da ogni stella conosciuta? E fino a dove si estendono i poteri degli Immortali e la loro conoscenza del passato e del futuro dell’umanità? E quali sono, infine, le loro reali intenzioni? Un epico e illuminante viaggio che interroga il destino dell’uomo nella vastità del cosmo, tra grandiose intuizioni ed ipotesi inedite che esaltano le virtù della miglior fantascienza. Внимание! Attention! Attenzione!

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— Col suo permesso, preferisco differire anche la discussione di questo argomento. Spero che, prima, mi permetta qualche minuto su un altro soggetto. Potrebbe sembrare del tutto scollegato dai budget e dalle libertà di sperimentazione, ma le garantisco che è una cosa di tutto rilievo. Dia una rapida occhiata a questo, poi le spiegherò il preciso motivo per il quale mi trovo qui.

Le passò un cilindro nero e piatto, — È un videoregistratore. Non si preoccupi della messa a fuoco, le fasi olografiche sono regolate su un piano focale percepito a sei piedi dall’occhio. Basta lasciar rilassare i propri occhi.

Judith Niles corrugò la fronte mostrando perplessità, rimise sul piatto il panino ancora intatto, e sollevò il cilindro all’altezza dell’occhio destro. — Come faccio a farlo funzionare?

— Prema il pulsante sul lato sinistro. Ci vogliono un paio di secondi prima che si formi l’immagine.

Gibbs rimase seduto in silenzio, aspettando, mentre una cameriera in uniforme verde sistemava davanti a ciascuno di loro una scodella di minestra color marrone torbido.

— Non vedo proprio niente — disse Judith Niles, dopo qualche secondo. — Non mi riesce di mettere a fuoco niente… oh, un momento…

La cortina nera come l’ebano davanti a lei cominciò ad assumere dei vaghi particolari a mano a mano che i suoi occhi si adattavano alla bassa intensità luminosa. C’era uno sfondo stellato con una lunga struttura affusolata in primo piano illuminata dalla luce riflessa del sole. Dapprima non ebbe alcun senso delle proporzioni, ma a mano a mano che il campo visivo si spostava lungo quella ragnatela di travi, altri elementi di quella scena cominciarono a fornirle indizi. Un rimorchiatore spaziale era accostato a una di quelle lunghe travi, il suo corpo tozzo era mezzo nascosto dal metallo. Più in fondo poteva vedere una capsula-della-vita agganasciata come un minuscolo fungo in un angolo d’un enorme giunto. La costruzione era enorme, si stendeva per centinaia di chilometri fino al lontano boma finale.

La telecamera continuò a scendere in picchiata verso il basso, fino a quando il lembo di Terra illuminato dal Sole comparve nel campo visivo.

— Sta vedendo una panoramica ripresa da uno dei monitor standard — spiegò Hand Gibbs. — Ce ne sono venti alla stazione. Funzionano ventiquattro ore al giorno ed effettuano rilevamenti di routine di tutto ciò che avviene. Quella telecamera concentra la propria attenzione soprattutto sulla nuova costruzione sul lato più basso del boma. Lei sa che stiamo costruendo una trave a mensola sperimentale di settecento chilometri su PSS-One? A quanto pare quaggiù la maggior parte della gente la chiama la Stazione Salter, anche se a Salter Wherry piace far notare che è stata la prima di molte, per cui PSS-One è un nome migliore. Comunque, non ci serve quell’estensione della trave a mensola per le attuali arcologie, ma sono sicuro che uno di questi giorni la useremo.

— Uh, uh. — Judith non distolse gli occhi dalle cavità orbitali del visore. La telecamera stava zoomando, avvicinandosi sempre di più a un’area all’estremitià del boma, dove erano diventati visibili due puntolini. Si rese conto che stava vedendo un primo piano ad alto ingrandimento d’una piccola parte del campo visivo della telecamera. A mano a mano che i puntolini crescevano di dimensioni, l’immagine cominciava a mostrare una leggera grana, con l’avvicinarsi del limite utile di risoluzione. Poteva distinguere braccia e gambe di ogni sìngola tuta spaziale, e i cavi che assicuravano le tute alle travi sottili.

— Stanno installando una delle antenne sperimentali — disse ancora la voce di Hans Gibbs. Era ovvio che sapeva esattamente qual era il punto del display che lei aveva in quel momento davanti ai propri occhi. — Quei due si trovano molto lontano dal centro della massa della Stazione, quattrocento chilometri sotto di essa. La Stazione Salter si trova in un’orbita di sei ore a diecimila chilometri di quota. A quell’altitudine la velocità orbitale è di quattrocentomilaottocentoottanta metri al secondo, ma l’estremità del boma viaggia a soli quattromilasettecentosessanta metri al secondo. Vede la leggera tensione in quei cavi? Quei due non sono del tutto in caduta libera. Avvertono all’incirca un centesimo di G. Non molto, ma quanto basta a fare la differenza.

Judith Niles esalò un profondo sospiro, ma non replicò.

C’erano abbastanza particolari nell’immagine per vedere esattamente quello che stava accadendo. I cavi che assicuravano una delle due figure in tuta spaziale erano stati allentati, in modo che potesse essere raggiunta una nuova posizione sulla trave. Una sottile antenna era stata allungata e si estendeva molto oltre l’estremità del boma. La figura più a sinistra cominciò a spostarsi lentamente lungo l’antenna, nel guanto destro stringeva una staffa di sicurezza. Era ovvio che ci sarebbe stato un altro punto di aggancio a portata di mano lungo la trave, dove il cavo di sicurezza poteva venir attaccato. La tuta si spostava con molta lentezza ruotando un po’ a mano a mano che avanzava. La seconda figura era rannicchiata sopra un’altra parte di quella ragnatela metallica, intenta ad agganciare una seconda grappa per l’antenna.

— In trenta secondi ci si sposta di quasi cinquanta metri — disse Hans Gibbs con calma. La sua compagna sedeva immobile come una statua.

La comprensione crebbe per minuscoli incrementi, in modo che non vi fu mai un solo istante in cui i sensi potessero dire all’improvviso: — Guai in vista! — La figura era quasi arrivata al punto di aggancio. Si stava ancora muovendo, avanzando a poco a poco, certamente abbastanza vicina, ormai, perché allungando il braccio potesse attuare il collegamento. Altri cinque secondi… e quel contatto fu mancato. Adesso, sarebbe stato necessario usare i comandi della tuta per applicare la piccola spinta necessaria a tornare indietro a portata di contatto. D’un tratto Judith Niles si trovò a desiderare disperatamente che i propulsori della tuta si accendessero, a bramare che la seconda figura sollevasse lo sguardo per vedere quello che lei vedeva. La distanza crebbe, qualche piede, trenta metri, tutta la lunghezza della sottile antenna. La tuta aveva cominciato a ruotare con maggiore rapidità sul proprio asse. Stava per superare l’ultimo punto possibile di contatto con la struttura.

— Oh, no. — Le parole furono un mormorio di protesta. Judith Niles stava respirando affannosamente. Dopo qualche altro secondo di silenzio, diede in un altro breve mormorio e drizzò il corpo con un sussulto, irrigidendosi. — Oh, no. Perché non fa qualcosa? Perché non si aggrappa all’antenna?

Hans Gibbs allungò una mano e gentilmente scostò il piatto cilindro dai suoi occhi. — Credo che lei abbia visto abbastanza. Ha visto l’inizio della caduta?

— Sì. Era una simulazione?

— Temo proprio di no. Era reale. Cosa pensa di aver visto?

— La costruzione del boma della Stazione Salter, su PSS-One. E c’erano due operai che stavano montando la sezione di un’antenna.

— Giusto. E che altro?

— Quello più all’esterno del boma ha lasciato la presa, senza aspettare per accertarsi di essere assicurato a un cavo. Non ha neppure guardato, è andato alla deriva. Quando l’altro se n’è accorto, era ormai troppo lontano perché fosse possibile raggiungerlo.

— Troppo lontano perché qualsiasi cosa potesse raggiungerlo. Si rende conto di ciò che è successo dopo?

Nessuno dei due mostrava il minimo interesse per le pietanze che avevano davanti. Judith Niles annuì con lentezza. — Rientro? Se non siete riusciti a raggiungerlo, ha cominciato il rientro?

Hans Gibbs la fissò sorpreso, poi si mise a ridere. — Be’, potrebbe anche succedere, se aspettassimo qualche milione di anni. Ma la Stazione Salter è in un’orbita piuttosto alta, non è il rientro che ci preoccupa. Quelle tute hanno aria soltanto per sei ore. Se non avessimo pronta una nave, tutti quelli che perdono contatto con la stazione e non riescono a tornare indietro con la limitata reazione di massa dei propulsori morirebbero asfissiati. A proposito, c’era una donna in quella tuta, non un uomo. Ha avuto fortuna. La telecamera era puntata su di lei, così siamo stati in grado di calcolare la sua esatta traiettoria prelevandola con un’ora di margine. Ma è probabile che, adesso, quella donna non sia più in grado di lavorare all’esterno. E altri non sono stati così fortunati. Abbiamo perso trenta persone in tre mesi.

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