«E io sono al sicuro da tutti i russi?» chiese Stoner.
Per un attimo, Markov non rispose. Poi, tirandosi la barba, disse con estrema serietà: «Sì. Ne sono certo.»
I due uomini restarono a fissarsi per un lungo momento di silenzio.
«Penso che mi andrebbe un po’ di quel tè» disse Jo, per interrompere il confronto muto.
«Subito.» Markov schizzò verso la cucina. «Ti preparerò una tazza di tè che ti calmerà i nervi e rinfrancherà il tuo spirito. Non come quell’orribile porcheria che chiamano caffè. Puà! Come si fa a bere roba del genere tutti i giorni?»
Stoner rise mentre Markov spariva in cucina. “Ci ha lasciati soli” capì; e andò a sedersi sul divano accanto a Jo.
«La mia ultima notte sulla Terra» disse. Poi aggiunse: «Per una settimana circa.»
«Non sei nervoso?»
«Maledettamente.»
«Non si vede. Sembri calmissimo.»
«All’esterno. Dentro, mi si agita tutto. Se mi facessero una radiografia, verrebbe confusa. A meno di non usare un tempo d’esposizione di un millesimo di secondo.»
Jo rise piano.
«Divento sempre nervoso prima di un lancio, specialmente negli ultimi minuti. Il mio battito cardiaco accelera.»
«È comprensibile» disse lei, e tornò seria. «Puoi ancora tirarti indietro, se vuoi. I russi hanno pronti altri cosmonauti che…»
«Lo so.»
«Non hai paura che cerchino di… di fermarti?»
«Kirill mi ha fatto la balia come un San Bernardo.»
«Ma non è sufficiente…»
«E anche tu» aggiunse lui. «Ti ho osservata, sai. Te ne vai in giro a controllare tutto e ti fai mangiare viva dalle zanzare.»
Lei parve sorpresa. «Non ho… Be’, noi due non bastiamo come guardie del corpo.»
Stoner tese una mano, le afferrò la nuca. «Te ne sono grato, Jo. Capisco quello che stai facendo e te ne sono grato, sul serio.»
«Ma certo.»
«Certo. Spero tu capisca perché mi sono così intestardito in questa faccenda.»
Jo annuì. «Sì, capisco, Keith. È questo che mi spaventa. Io farei esattamente le stesse cose, al tuo posto. Però odio l’idea che le stia facendo tu, che metta a repentaglio la tua vita.»
«Però le cose stanno così» disse lui, dolcemente.
«Ed è impossibile cambiarle. Lo so.»
Markov tornò nella stanza, reggendo due bicchieri fumanti di tè con supporti d’argento. Quando vide Stoner e Jo seduti vicini, strizzò l’occhio.
«Due romantici innamorati» sospirò. «Come vi invidio.»
Stoner si scostò da Jo, che accettò il bicchiere di tè.
«Grazie, Kirill.»
«Per te, mia bellissima, conquisterei la Cina per poterti sempre offrire il tè migliore.»
La ragazza sorrise al complimento.
Mentre Stoner finiva di bere il caffè, il medico consultò l’orologio, si alzò e spense la radio. I tre lo guardarono raggiungere il minuscolo studio adiacente alla stanza, lo videro aprire un armadietto chiuso a chiave.
«Nessuno ha messo veleno al posto del tranquillante che devono darmi» si sentì dire Stoner.
«La tua ora è giunta» disse solennemente Markov.
Stoner guardò Jo. La ragazza stava osservando il medico che toglieva una scatola di plastica nera dall’armadietto. Gli occhi scuri, ansiosi di Jo si posarono su Stoner. «E tutto il giorno che tengo sotto controllo l’armadietto. È sempre rimasto chiuso.»
Markov fece una smorfia, ma non disse nulla.
Tutte quattro, guidati dal medico, salirono alla camera di Stoner. Stoner sedette sulla poltroncina scricchiolante, sotto lo sguardo di Markov e Jo.
Con meticolosa precisione, il medico preparò la siringa e la provò.
Stoner guardò la lettera per suo figlio abbandonata sulla scrivania. La concluse in fretta:
Adesso devo andare. Probabilmente seguirai il lancio in televisione. Spero di rivedere presto te ed Elly. Scrivimi, per favore, e chiedi anche a tua sorella di scrivere. Vi voglio tanto bene.
Firmò, piegò il foglio, lo infilò nella busta già indirizzata, passò la lettera a Markov. «Me la imbuchi, Kirill?»
Markov annuì.
Il medico si avvicinò, disinfettò il braccio di Stoner appena sopra il gomito. Markov e Stoner girarono la testa. Stoner avvertì appena la puntura. Dopo un attimo, il medico gli premeva sul braccio un batuffolo di cotone.
«Tutto finito» disse Jo.
«Cristo, odio le iniezioni» borbottò Stoner.
Il medico sorrise a tutti, a Jo con particolare calore, poi uscì. Stoner si alzò, controllò le gambe.
«Niente. Nessun effetto.»
«Lo sentirai subito» disse Markov. «Sarà meglio che ti sdrai a letto.»
«Sì, probabilmente.»
Markov si carezzò la barba. «Keith… Domani avrai attorno altra gente… Tecnici, dottori…»
Stoner annuì. Markov gli strinse le spalle, lo abbracciò. Stoner batté i pugni sulla schiena del russo, che ricambiò il gesto.
«Buonanotte» disse Markov, scostandosi. «E buona fortuna, amico mio.»
«Buonanotte, Kirill.»
Markov scappò fuori. Stoner si girò: Jo era ancora lì, tra lui e il letto.
Stoner tese una mano per chiudere la porta, e non riuscì a toccarla. Barcollò.
«Whoa…!» La stanza ondeggiava.
«Ti aiuto io» disse Jo.
«Ce la faccio da solo.» Stoner si aggrappò alla porta, recuperò l’equilibrio, poi diede un colpo. La porta si chiuse, e lui si girò a guardare Jo.
«Devono averti dato qualcosa di molto forte» disse Jo. La sua voce era lontana, lontanissima.
«Roba da ragazzini» ribatté Stoner. Poi cercò di schioccare le dita, ma non ci riuscì.
E lei lo afferrò, lo trascinò, lo accompagnò fino al letto. Una distanza infinita. Interminabile.
«La mia ultima notte sulla Terra» borbottò Stoner. «Voglio trascorrerla con te.»
«La passeremo insieme» disse lei.
Stoner precipitò, scivolò dolcemente, come senza peso, sul letto così invitante e così lontano.
«La mia ultima notte sulla Terra» ripeté, coricandosi sul letto cigolante.
«Sì, lo so.»
Jo era al suo fianco, e lui la strinse forte. Era calda, il cervello di Stoner fu invaso dal profumo dei fiori di primavera.
«Siamo polvere di stelle» le disse.
La voce di lei era un mormorio lontano, «Me l’hai detto la nostra ultima sera a Kwajalein.»
«Un milione di anni fa. Sì, ricordo.»
«Chiudi gli occhi, Keith. Dormi.»
«Voglio fare l’amore con te, Jo. Voglio che tu faccia l’amore con me.»
La risata della ragazza fu dolce come uno scampanellio smorzato. Lui non ne avvertì la tristezza. «Keith, tra un minuto sarai belle addormentato.»
«No, no. Io…» Stoner s’interruppe, chiuse gli occhi.
Jo restò seduta al suo fianco per lunghi momenti, scrutò il suo viso che si rilassava in un sonno profondo, tranquillo. Lo baciò, e lui sorrise.
«Dimmi che mi ami, Keith» sussurrò Jo. «Dimmi almeno una volta che mi ami.»
Ma Stoner era ormai addormentato, il sorriso sulle labbra.
Jo si alzò, si lisciò i vestiti, raggiunse la porta. Lanciò un’ultima occhiata a Stoner che dormiva profondamente e uscì.
Wichita
«Harry, corri! Ti perdi Walter.»
«Walter? Ma non era andato in pensione?»
«Per questa occasione è tornato. Sbrigati!»
«Aspettate. Aspettate. Sono qui. Alza il volume.»
«Giuro che stai diventando sordo. Giuro.»
«Se chiudessi la bocca per un minuto, forse potrei sentire la televisione!»
«Non metterti a urlare, Harry! La prima volta in un anno che si vede Walter, e tu vuoi litigare.»
«Alza il volume e siediti.»
«…E adesso ci colleghiamo con Roger Mudd, a Mosca.»
«Qui a Mosca sono le tre di notte, Walter, e la città dorme. Però le luci negli uffici del Cremlino dove verrà seguito il volo sono tutte accese…»
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