Ci sarebbe stato il cardinale Benedetto, lo sapeva. E Von Friedrich, e molte altre persone. Gli inviati della televisione. I paparazzi. E lui doveva rendere tutto semplice, tradurre la situazione in poche parole che chiunque potesse comprendere. Non avrebbe parlato semplicemente alle telecamere e ai giornalisti, ma a centinaia di milioni di credenti e, stranamente, anche a miliardi di non credenti. Il papato era un grande peso, un peso di portata mondiale. Adesso stava per diventare interstellare.
“Ecco cosa dirò” pensò il papa, annuendo piano. “Dio, nella Sua benevolenza e saggezza, ha ritenuto opportuno svelarci nuovi segreti della Sua creazione. È una fortuna eccezionale vivere in quest’epoca. Questo oggetto alieno riafferma la verità di Cristo: tutti gli uomini sono fratelli.”
Per un istante fugace, si chiese di nuovo quali sarebbero state le conseguenze se gli alieni si fossero rivelati malvagi, maligni.
Non può essere, si ripeté fermamente. Non posso crederlo. Dio non permetterebbe mai che un male simile scenda sulle nostre teste.
Sicuro di sé, spalancò le porte. Le luci degli operatori televisivi si puntarono su di lui; la folla di giornalisti si accalcava contro i drappi rossi messi per l’occasione.
Le luci abbaglianti filtrarono sino nella cappella, dove, sopra l’altare a cui si era inginocchiato il papa, un affresco medievale del Diluvio ritraeva un’umanità peccaminosa castigata da un Dio terribile nella sua ira.
A metà globo di distanza, a Kwajalein, era primo mattino. Reynaud, seduto accanto al letto di Schmidt, guardava sul televisore dell’ospedale il countdown.
Cronkite stava mostrando una visuale di Cape Canaveral. Uno Space Shuttle della NASA era immobile sotto le luci dei riflettori, il muso puntato verso il cielo della Florida.
«E al centro spaziale Kennedy, gli americani si preparano a lanciare l’aerocisterna che nello spazio, in prossimità della nave aliena, rifornirà di carburante la Soyuz russa.
«L’aerocisterna è un veicolo russo, giunto negli Stati Uniti sei giorni fa per essere utilizzato nel complesso sforzo congiunto americano-sovietico per entrare in contatto con l’astronave aliena».
Schmidt, seduto sul letto, fasciato dalla testa ai piedi, chiese: «Pensi che ce la faranno?» La sua voce era esile, lenta.
«Ne sono sicuro» rispose Reynaud. «Stoner non si lascerà fermare da nulla.»
Anche il segretario generale era seduto sul letto, e seguiva le fasi finali del conto alla rovescia. Borodinski gli era a fianco.
«Sta andando tutto bene, compagno segretario» disse, senza distogliere gli occhi dallo schermo. «Stamattina deve essere molto fiero di lei. Il mondo intero guarda la Russia aprire la strada all’incontro con l’alieno.»
Ma il segretario generale aveva chiuso gli occhi. Il mento gli ricadde sul petto. Il suo ultimo respiro fu un lungo, dolce sospiro di liberazione.
Stoner era sdraiato di schiena nella piccola capsula sferica della Soyuz. Adesso aveva il casco in testa, la visiera era abbassata e chiusa ermeticamente; le mani guantate gli riposavano sulle ginocchia. E sudava. Le gambe penzolavano sopra di lui. “Come una tartaruga rovesciata sul dorso” pensò. Paralizzata e in pericolo.
Si girò a guardare Federenko, sul sedile di sinistra, ma il casco gli bloccò la visuale. Però, in cuffia, sentiva il cosmonauta chiacchierare allegramente in russo coi tecnici addetti al lancio. Stoner cercò d’immaginare cosa stessero dicendo.
«Alimentazione interna in funzione,» Sul pannello qualche centimetro sopra la sua testa si accese una fila di luci verdi.
«Sistema di mantenimento vitale in funzione.»
«Computer di navigazione in funzione.»
«Pressione atmosferica normale.»
Il cosmonauta faceva danzare le dita sugli interruttori del pannello di comando come un pianista che provasse uno strumento nuovo. A una a una, le file di luci si accesero.
«Shtoner!» esplose il basso di Federenko.
«Sì?»
«Al mio segnale, saremo a T meno un minuto… “Ora!”»
T meno un minuto. Stoner udì in cuffia le parole del russo, e gli fu grato di aver trovato il tempo per informarlo. Adesso, il suo orologio mentale poteva contare gli ultimi sessanta secondi a ritmo con la voce del controllore russo di lancio.
Gli occhi di Stoner guizzarono sul pannello di comando. A ogni spia e interruttore era stata aggiunta un’etichetta in inglese. In poche settimane, aveva dovuto assimilare conoscenze che avrebbero richiesto un anno. “Ma posso guidare questa nave, se ci sarò costretto” pensò Stoner. “Se sarà necessario potrò intervenire. Posso farlo.”
Sotto i guanti, le sue mani erano madide di sudore. Sperò di non dover essere costretto ad assumere il comando della nave.
T meno trenta secondi.
Jo, sul tetto dell’edificio dov’erano alloggiati, scrutava il cielo chiaro e la rampa di lancio, lontana diversi chilometri.
Non permettere che succeda qualcosa, pregò in silenzio. Non permettere che succeda qualcosa.
L’altoparlante urlò in russo per diversi momenti, poi in inglese: «Un messaggio del presidente dell’Unione Sovietica. “Buona fortuna ai due coraggiosi che partono per incontrarsi con la nave aliena. L’ammirazione più sincera e gli auguri più sentiti del popolo sovietico vi accompagnino nell’audace missione.”»
Prima che gli echi si fossero spenti, la voce aggiunse: «T MENO QUINDICI SECONDI.»
T meno dieci secondi, contò mentalmente Stoner.
Il cuore prese a battergli follemente in petto al trascorrere dei secondi: cinque, quattro, tre…
La rampa tremò sotto di loro. Le pompe cominciarono a entrare in funzione.
«…Uno, zero…»
Udì il termine russo per “Accensione!”, e tutta la capsula fu scossa da un brivido. Un rombo cupo nacque sotto di loro, esplose in un urlo assordante: milioni di demoni levarono la voce nel loro coro più infernale, e una mano pesantissima, implacabile, gli schiacciò il petto, lo affondò sul sedile, lo scosse con violenza mostruosa.
Stoner sentì tutto il fiato uscirgli dai polmoni. Gli occhi gli rientrarono nelle orbite. Il rumore era travolgente, una parete solida che gli squassava le orecchie. Non riusciva ad alzare le mani dai braccioli. La spina dorsale gli si stava spezzando. E il rumore, il rumore e le vibrazioni che lo scuotevano…
Nel mondo intero, centinaia di milioni di persone videro il razzo scintillante alzarsi su una lingua di fuoco, diritto e sicuro quasi fosse guidato da un filo invisibile; alzarsi piano, maestosamente, poi accelerare, salire più in alto, accelerare, raggiungere l’azzurro macchiato di nubi, aumentare ancora la velocità, tracciare un arco in cielo, e finalmente scomparire tra le fiamme che uscivano dagli ugelli dei motori.
A Mosca, un folto gruppo di giornalisti incalliti uscì in grida d’esultanza quando il missile spari in cielo.
A New York, Walter Cronkite si alzò all’improvviso dietro la scrivania, cogliendo alla sprovvista i cameramen, che dovettero alzare le telecamere per continuare a inquadrarlo. A milioni di spettatori parve di udire Cronkite che mormorava: «Vai, baby, vai.»
Jo guardò alzarsi il missile: le fiamme dei motori erano la cosa più luminosa che avesse mai visto. Il missile si alzò in un silenzio innaturale, sempre più su, sempre più in alto; e non si udì un solo suono. Poi il rombo gigantesco la raggiunse, l’investì: una marea solida di suono che arrivò a ondate, facendo tremare tutto l’edificio. A Jo parve di avvertire il calore sprigionato dai motori; capì che si trattava solo della sua immaginazione, ma lo sentì ugualmente.
“Addio, Keith” disse fra sé. Perché, nel profondo, sapeva che non lo avrebbe mai più rivisto.
L’uomo non resterà per sempre su Terra… Terra è la culla della mente, ma non si può vivere all’infinito in una culla.
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