Il computer stava lavorando a qualcosa: un problema che impegnava buona parte dei suoi circuiti. Emetteva un ronzio continuo, e le luci si accendevano e spegnevano senza che uscisse una sola riga stampata, da quando Jo era arrivata, un’ora prima.
“Forse sta lavorando a un problema per Keith” pensò lei abbassandosi sui talloni. Una smorfia le piegò gli angoli delle labbra. “Sono passate più di due settimane, e non ha mai chiamato, non ha nemmeno dato un messaggio al dottor Thompson o a uno degli altri che lo vanno a trovare. Non gliene importa niente di me. Non gliene frega un accidenti di me. Se l’è spassata, e basta.”
Squillò il telefono.
Con un grugnito, la ragazza si alzò e raggiunse l’apparecchio incorporato nella consolle, accanto a una tastiera.
«Centro computer» rispose.
«Sono il dottor Stoner» disse la voce di Keith. Sembrava leggermente seccato. «Con chi parlo?»
«Keith…» Jo cercò di nascondere l’affanno improvviso della voce, cercò di dirsi che era solo per le flessioni.
«Jo? Sei tu?»
«Sì.»
«Adesso lavori al centro computer?»
Lei annuì, poi capì quanto fosse assurdo annuire. «Sì. Mi hanno messa qui. Per questa settimana, faccio il turno di notte.»
«Come va?»
«Va…» La ragazza esitò, riordinò i pensieri. «Va tutto benissimo, Keith. E tu?»
«Lo stesso, più o meno.» Anche la voce di lui si fece guardinga. «Non possiamo dirci troppe cose al telefono, immagino.»
«No. Credo che le misure di sicurezza…»
«Sì, lo so.»
All’improvviso, lei non ebbe più niente da dire.
Dopo un attimo di silenzio, luì chiese: «Come ti tratta Big Mac?»
Un lampo d’elettricità traversò il corpo di Jo. “Sa tutto?” si chiese.
«Jeff Thompson mi ha detto che ha scritto una lettera di raccomandazione per te alla NASA.»
Lei sentì la rabbia gelida delle sue parole. Con la stessa freddezza, ribatté: «Esatto, Keith.»
«Buon per te» disse Stoner, acido. «Sei una ragazza che sa quello che vuole. Spero che tu lo ottenga.»
“Idiota, mentecatto!” avrebbe voluto urlare lei. “Credi che lo stia facendo per me?”
Però gli disse: «Va tutto alla perfezione, Keith.»
«Sono pronto a scommetterci.»
«Perché hai chiamato?» gli chiese, freddissima.
Lo sentì tirare il fiato prima di rispondere: «Un paio d’ore fa ho inserito un problema di traiettoria, e da allora il mio terminale si è bloccato. Cosa succede? Un problema del genere non dovrebbe richiedere tanto tempo al computer.»
«Il computer è in funzione da quando sono arrivata qui» disse lei. «I tuoi problemi di traiettoria hanno un’infinità di varianti, richiedono tempi molto lunghi.»
«Be’, controlla, ti spiace?»
«Certo» disse lei. «Sono qui per questo.»
Jo attese che lui rispondesse, dicendo qualcosa, qualsiasi cosa. Persino la rabbia avrebbe indicato che lei gli stava a cuore.
Invece, lui si limitò a borbottare: «Grazie.»
“Non gliene importa niente” capì lei. “Non gliene è mai importato. Nemmeno per un istante. Si preoccupa di più per il suo maledetto programma che per me.”
«Non c’è di che» disse Jo. E riappese.
Stoner udì la voce di lei, gelida, lontana come la stella più remota: «Non c’è di che.»
La comunicazione s’interruppe.
“Puttana” pensò. “Andrebbe a letto con chiunque possa aiutarla. Be’, spero che si diverta con Big Mac.”
Sbatté giù il telefono. Si sentì invadere dalla furia, e capì che la sua rabbia non era rivolta a Jo, nemmeno E McDermott, ma a se stesso.
“Sei proprio un uomo in gamba, Stoner” si disse. “Te ne stai qui e gli permetti di tenerti prigioniero e ti racconti che il tuo lavoro è più importante dei legami personali, e quello che in realtà vorresti fare è sbattere giù quella porta fottuta e correre fuori a prendere la ragazza e portartela nella tua caverna.”
«Senti che vento!»
Con un sobbalzo, Stoner si girò: Cavendish era apparso sulla soglia del soggiorno, un bicchiere di brandy in ogni mano.
Stoner respirò profondamente, riportò sotto controllo le sue emozioni impazzite, costrinse il cuore a rallentare i battiti frenetici; distese, sulla furia che sentiva ribollire dentro, un manto di impenetrabile freddezza.
«Ti senti bene, Keith?» gli chiese Cavendish traversando la stanza.
Stoner annuì, perché non aveva ancora il coraggio di parlare. Accettò il bicchiere che l’altro gli porgeva.
Cavendish alzò il bicchiere, fece un sorriso smorto. «Alla salute» brindò.
«Alla salute» disse Stoner. Sorseggiò il cognac, che gli scese in gola come fuoco liquido.
Cavendish portò la sedia a dondolo davanti al caminetto scoppiettante e si accomodò con un sospiro di stanchezza. «Che notte» disse. «Che notte. Si sente il vento che ulula nel camino.»
Stoner sedette sulla poltrona davanti all’altro, poi chiese: «Perché non riesci a dormire?»
«Hmmm? Cosa?»
«Hai detto che non dormi bene.» Un argomento neutro. Stoner sentiva la rabbia affondare dentro di sé, fuggire nell’angolo nascosto dove sarebbe rimasta senza che nessuno potesse notarne la presenza.
«Brutti sogni» rispose Cavendish, fissando le fiamme. «Sono rimasto prigioniero dell’esercito imperiale giapponese per quattro anni… Lo stesso tempo, più o meno, che un fotone impiega per viaggiare da Alpha Centauri alla Terra.»
«Dev’essere stata dura.»
«Oh, quello è stato solo l’inizio.» Una raffica di vento fece sbattere i rami di un albero contro il tetto, e Cavendish alzò sul soffitto due occhi spiritati. «I giapponesi ci hanno trasferiti in Manciuria giusto in tempo per permettere ai russi di farci prigionieri, quando si sono decisi a entrare nella guerra del Pacifico.»
«I russi stavano dalla nostra parte.»
«Stavano dalla parte di Stalin. E Stalin aveva deciso che tutti gli scienziati su cui fosse riuscito a mettere le mani, persino un esperto di fisica matematica, giovane, denutrito e malato, dovessero restare in Unione Sovietica a lavorare per lui, lo volessero o meno.»
«Ti hanno tenuto in Russia?»
«In Siberia. Voialtri avevate appena messo a punto la vostra maledetta bomba atomica, e Stalin aveva una fretta del diavolo di recuperare le distanze.»
«Credevo che fossero le spie a passare ai russi le informazioni sull’atomica…»
«Balle! L’unico vero segreto della bomba atomica era che funzionava, che si poteva costruirla e farla esplodere per bene. E quel segreto l’avete svelato a Hiroshima. Anche questa astronave aliena, del resto, ci ha svelato un solo grosso segreto: che esiste, che proviene da un pianeta che non è la Terra.»
«Per quanto tempo ti hanno tenuto in Russia?»
«Anni. Finché non è morto Stalin e i suoi successori hanno cercato di allentare un po’ la tensione. Non è stato facile nemmeno allora, però. Prima di mollarmi, mi hanno fatto fare un viaggio di andata e ritorno all’inferno.»
«Cioè?»
Cavendish ebbe una smorfia di dolore. «Quei porci del KGB si erano messi in testa che potevo diventare una spia meravigliosa per loro, una volta rientrato in Inghilterra. Mi hanno sottoposto a tutti i metodi di lavaggio del cervello… e intendo proprio tutti. Ecco perché ho paura di dormire.»
Cominciarono a tremargli le mani.
«Però non hai ceduto» disse Stoner.
«Certo che ho ceduto! E ho giurato che sarei stato una brava spia dei sovietici. C’è voluto parecchio per convincerli. Sono molto meticolosi.»
Stoner restò a fissarlo, in attesa di altre confessioni.
«Be’, quando sono tornato in patria e la testa mi si è schiarita un tantino, ho raccontato tutta la storia al servizio segreto inglese. Ne sono rimasti deliziati. Mi hanno detto che potevo fare l’agente doppio, cioè fingere di lavorare per i rossi, mentre in realtà avrei lavorato per la Corona.»
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