Ben Bova - Giove chiama Terra

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Giove chiama Terra: краткое содержание, описание и аннотация

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Da osservazioni raccolte sulla Terra risulta che in orbita attorno a Giove c’è qualcosa da cui cominciano a pervenire dei segnali. Un ufo? La deduzione sembrerebbe inevitabile, dal momento che nessuna astronave terrestre è mai ancora arrivata laggiù. Ma...
Ma queste non sono praticamente le stesse parole con cui abbiamo presentato nello scorso numero
di Zach Hughes?
Il fatto è che Ben Bova e Zach Hughes per una straordinaria coincidenza hanno scritto e pubblicato contemporaneamente due romanzi che partono dalle stesse premesse pur arrivando a conclusioni diversissime. Veda dunque il lettore quali delle due preferisce e tenga conto d’altra parte che il complesso, ricchissimo romanzo di Bova è quasi tre volte più lungo di quello di Hughes e negli USA costa più del doppio, mentre in URANIA costa naturalmente lo stesso. Un’occasione da non perdere.

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«Ti aspetti che io ti creda?»

«Certo. Ti ho mai mentito, cara?»

Il viso di lei si contorse in una frustrazione inesprimibile a parole. Maria scomparve in cucina. Markov la sentì aprire armadietti, sistemare scatole di cibo.

Romperà qualcosa, pensò. Con un sospiro, si alzò e andò in cucina.

«Kwajalein?» chiese.

Sua moglie, in punta di piedi, stava sistemando vasi di rape in salamoia nell’armadietto sopra il fornello. Senza girarsi, gli rispose: «Kwajalein. Sì.»

«Ti do una mano.» Markov s’infilò nel poco spazio tra frigorifero e fornello, prese un paio di scatole da sistemare sui ripiani più alti.

«Quelle no!» Maria gli strappò le scatole di mano. «Vanno qui.»

Lui restò a guardarla mentre sistemava le riserve di cibo come preferiva; poi accettò da lei altre due scatole, le mise sul ripiano più alto e chiese: «Perché devo andare a Kwajalein? Perché non posso restare qui a casa?»

«Bulacheff ti ha chiesto esplicitamente. L’Accademia invierà un gruppo ristretto di scienziati per studiare con gli americani l’astronave aliena.»

«Viene anche Bulacheff?»

«No.»

«Come pensavo.»

«Ma tu partirai.»

Markov appoggiò il corpo magro agli sportelli della dispensa. «Ma io non ho nulla da offrire ai loro studi! Non ne abbiamo già discusso un’altra volta?»

«Ci sarà l’astronauta americano, Stoner.»

«Ah. Il mio corrispondente.»

«Esatto. Ti conosce di fama. È per questo che Bulacheff ha scelto anche te.»

«Non avrei mai dovuto scrivere quel libro» mormorò Markov.

«Sei un esperto a livello internazionale di linguaggi extraterrestri.»

«Cioè di nulla, in parole povere.»

«E farai parte del gruppo di scienziati sovietici che andranno a Kwajalein per lavorare con gli americani allo studio di questo visitatore alieno.»

Markov, depresso, scosse la testa. «Maria, io voglio solo restare qui a Mosca. A casa. Con te.»

Lei gli scoccò un’occhiata sospettosa. «Su questo puoi stare tranquillo. Verrò anch’io a Kwajalein con te.»

«Vieni anche tu!» Markov era stupefatto.

«Certo. Tu sei troppo importante per poter uscire dall’Unione Sovietica senza scorta.»

«Oh, andiamo, Maria, i tuoi superiori hanno tutta questa paura che io possa chiedere asilo in Occidente? Non sono mica un ballerino.»

«È per la tua sicurezza.»

«Naturalmente.»

«Naturalmente!» sbottò lei. «Non credi che mi importi la tua sicurezza?»

Markov si passò le mani sulla camicia, in cerca di un pacchetto di sigarette. «Credo che tu pensi ai guai che vi darei se decidessi di chiedere asilo politico.»

«E a te interessa solo trovare qualche vacchetta da sedurre!»

Lui alzò la testa. «Maria Kirtchatovska, ti ho detto che stanotte ero solo in ufficio.»

«Sì, me l’hai detto.»

Markov tornò in soggiorno. Le sigarette erano sul tavolino accanto alla sua poltrona preferita.

«Però non mi hai detto» disse Maria, tenendogli dietro come un bulldog implacabile «che quella studentessa con gli occhi bovini del centro di ricerca ti ha seguito a Mosca.»

«Cosa? Di cosa stai parlando?»

«Di quella puttana della Vlasov… Quella che ti portavi a letto al centro di ricerca.»

«Sonya?» Markov si sentì dilaniato tra gioia e timori. «È a Mosca?»

«Ma guardati!» urlò Maria. «Hai già un’erezione!»

Lui scosse la testa. «Maria, non capisci. Quella ragazza non significa niente per me. È solo una bambina molto vivace.»

«Pronta a toglierti i pantaloni ogni volta che glielo chiedi» disse Maria.

Con un sospiro, Markov ribatté: «Maria Kirtchatovska, tu mi conosci troppo bene. Non so resistere. Sonya mi si butta addosso. È dotata di una grossa carica vitale, è piuttosto graziosa.»

“E giovane” aggiunse fra sé Maria. Posò lo sguardo sullo specchio al lato opposto della stanza. Si guardò: era piccola e tozza, pallida, quasi cerea, con un viso a patata. L’immaginazione la spinse a “vedere” il marito con la florida ragazza che aveva trovato nel suo letto.

«Non sarai più costretto a resisterle» disse Maria, con voce bassa, velenosa. «Non tornerà all’università. È in viaggio verso una fabbrica dell’Ucraina, dove imparerà l’arte di riparare le trattrici agricole.»

Markov restò a bocca spalancata. «Cos’hai…?»

«E tu verrai a Kwajalein, con me» disse Maria.

Il viso di lui s’imporporò. «Donna, hai esagerato!» ruggì; e le si scagliò addosso, la mano alzata, pronta a colpire.

Maria, però, non si spostò. «È troppo tardi perché tu possa intervenire» disse. «È già tutto fatto. E adesso, d’ora in poi, non sfuggirai ai miei occhi nemmeno per un minuto.»

Markov s’immobilizzò, rosso in viso, col sudore che gli scendeva lungo il colletto della camicia.

«L’hai… fatta allontanare? Hai rovinato le sue possibilità di carriera nel campo dell’astronomia? Così, come niente?»

Maria non rispose. Girò le spalle e s’incamminò lentamente in cucina, piantò suo marito in mezzo al soggiorno; e Markov, per la prima volta, capì quanto potere avesse sua moglie.

19

Le isole Marshall costituiscono il gruppo più orientale delle isole della Micronesia, nonché la regione orientale dello United States Trust Territory delle isole del Pacifico. Due degli atolli, Kwajalein ed Eniwetok, sono stati teatro di pesanti scontri durante la Seconda guerra mondiale. Più tardi, Bikini ed Eniwetok sono stati i bersagli di esperimenti con l’atomica… Le isole si estendono all’incirca da latitudine 3° a 15° N. e da longitudine 161° a 172° E. La superficie delle terre emerse è di 158 chilometri quadrati, mentre la zona lagunare occupa 11.650 chilometri quadrati. Una laguna chiusa da scogliere, con un’area di 2.175 chilometri quadrati, fa di Kwajalein l’atollo più grande del mondo.

Enciclopedia Britannica , edizione 1965

Keith Stoner, seduto sotto il sole alto e caldissimo, scrutava a occhi socchiusi la spiaggia di sabbia.

Da lì, l’atollo aveva l’aspetto del classico paradiso tropicale: palme aggraziate mosse dalla brezza marina, onde bianche che si frangevano contro scogliere lontane, la laguna di un incredibile azzurro-verde, calma e invitante, un cielo cristallino disseminato di nuvolette bianche che seguivano il vento.

“Manca solo una donna col gonnellino d’erba” si disse Stoner.

Però, quando girò la testa nella direzione opposta alla spiaggia, vide che il mondo moderno aveva già impresso su Kwajalein il suo marchio inconfondibile. Edifici grigi, tozzi, sorgevano a pochi metri dalla spiaggia, su uno spiazzo che i bulldozer avevano liberato da palme e susini.

Oltre, c’erano la pista d’atterraggio, i garage e gli uffici, le officine, le jeep e i camion che percorrevano l’unica strada: un sentiero corallino distrutto che andava dal molo all’estremità nord dell’isola agli alloggi a sud.

Su tutto si alzavano le sei antenne del radiotelescopio, mezza dozzina di giganteschi dischi di metallo puntati verso un punto invisibile del cielo: l’astronave in avvicinamento.

«Fai vita da spiaggia?»

Girandosi, Stoner vide Jo Camerata che camminava verso di lui, a piedi scalzi, con jeans al ginocchio che mettevano in risalto le sue gambe lunghe, e un top ridottissimo. La carnagione della ragazza, già abbronzata, aveva un colorito olivastro.

Nei pochi giorni da che erano arrivati sull’isola, Stoner era riuscito a evitarla. “Però lo sapevi che prima o poi l’avresti incontrata” si disse.

«Più o meno» rispose, guardingo.

Lei sorrise. «Come abbigliamento ci siamo.»

Stoner indossava un vecchio paio di calzoncini da ginnastica e una camicia leggera, sbottonata, le maniche arrotolate sopra i gomiti. I ripetuti avvertimenti della marina su infezioni e malattie tropicali lo avevano convinto a portare sempre calze e scarpe.

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