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Colin Wilson: I vampiri dello spazio

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Colin Wilson I vampiri dello spazio

I vampiri dello spazio: краткое содержание, описание и аннотация

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Autore di una vasta Enciclopedia del crimine e studioso del soprannaturale e dell’occulto, Colin Wilson non poteva mancare prima o poi all’appuntame con la fantascienza. Ma se l’inizio è tradizionale, se il primo personaggio a entrare in scena è un’astronave immensa e deserta, una cattedrale volante trovata in orbita nella fascia asteroidale, ben presto la storia prende una piega sinistra, ricca di morbose e agghiaccianti sfumature. Cadaveri che si ridestano, vittime che si gettano affascinate in braccio alla morte, orride sostituzioni di persona, efferati delitti, e una caccia sempre più affannosa alla creatura (ma è soltanto una?) che uccide e distrugge senza pietà per tutta l’Inghilterra. La soluzione sarà insieme spaziale e vampiristica, combinerà felicemente le emozioni classiche della fantascienza con i sudori glaciali della fantasy.

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In quel momento a Londra erano le sette di sera. Sulla “Hermes” gli uomini regolavano i loro giorni con l’ora di Greenwich: era un modo per mantenersi in contatto col loro mondo. Ora li aspettava una serata scialba, dopo tutta l’emozione della giornata. Carlsen fece distribuire una razione supplementare di whisky, ma non tanto da ubriacare qualcuno. Non voleva salire a bordo dell’astronave sconosciuta con un equipaggio sofferente dei postumi di una sbronza.

Insieme con Giles Farmes, l’ufficiale medico, Carlsen manovrò la “Hermes” in modo che un portello di uscita venisse a trovarsi esattamente di fronte allo squarcio che si apriva nello scafo della gigantesca astronave, e un paio di robot teleguidati vi entrarono per prelevare dal relitto campioni di polvere cosmica. Le analisi, tese a rilevare la presenza di virus spaziali, risultarono negative. (Dopo il disastro della “Ganimede”, avvenuto nel 2013, gli astronauti erano diventati sensibilissimi ai pericoli che potevano portare sulla terra con la loro astronave). Trovarono leggere tracce di radioattività, ma non superiori a quelle riscontrabili in una polvere che fosse stata esposta a periodici scoppi di radiazioni dovute a eruzioni solari. Le fotografie scattate dai robot mostravano un ampio locale le cui dimensioni era difficile stabilire. Nell’ultimo bollettino emesso prima di andare a dormire, il Comandante Carlsen disse che secondo lui l’astronave doveva essere stata costruita da giganti. Una frase di cui si sarebbe pentito.

Nessuno riuscì ad addormentarsi facilmente, Carlsen restò sveglio a lungo, chiedendosi come sarebbe stata d’ora in avanti la sua vita. Quarantacinque anni, di origine norvegese, Olaf Carlsen era sposato con una bella ragazza bionda di Alesund alla quale non piaceva che lui compisse viaggi di sei mesi a esplorare lo spazio. Adesso c’era la probabilità che Carlsen tornasse sulla Terra definitivamente. Come capitano della spedizione avrebbe avuto il diritto di scrivere e vendere i primi articoli e il primo libro sulla sua scoperta. Sarebbe bastato questo a farlo diventare ricco. Gli sarebbe piaciuto comprarsi una fattoria in una delle Isole Ebridi che tanto amava, e passare un paio d’anni a esplorare i vulcani dell’Islanda… Questi allettanti progetti, invece di conciliargli il sonno, aumentarono la sua eccitazione. Alle tre del mattino si decise a prendere un leggero sonnifero. Si addormentò, ma per il resto della notte sognò giganti e castelli popolati da fantasmi.

Finirono di fare colazione prima delle dieci. Nel frattempo Carlsen aveva deciso chi sarebbe andato con lui a bordo del relitto. Scelse Craigie, Ives e Murchison, il secondo ingegnere. Murchison era grande e grosso, e Carlsen si sentiva in un certo senso tranquillizzato all’idea di averlo nel gruppo.

Dabrowsky caricò la minicamera con pellicola sufficiente a due ore di ripresa. Se ne servì per riprendere la scena dei compagni che si infilavano le tute spaziali, poi chiese a ognuno di loro di dire quello che provava in quel momento. Vedeva già il suo documentario trasmesso alla televisione.

Steinberg, un giovane ebreo di New York, aveva l’aria cupa e malinconica. Carlsen si chiese se fosse offeso per non essere stato incluso nel numero di quelli che sarebbero andati sull’astronave. — Come ti senti, Dave? — gli domandò. — Bene — rispose Dave. Ma quando vide che Carlsen inarcava un sopracciglio, aggiunse: — Ho una specie di presentimento… non so. Quell’astronave mi dà i brividi.

Carlsen provò una stretta allo stomaco. Si ricordava che Steinberg aveva avuto un presentimento simile tre anni prima, poco prima che la “Hermes” rischiasse di avere un incidente fatale sull’asteroide Hidalgo. Quella volta, una superficie che sembrava solida era sprofondata sotto di loro, danneggiando seriamente le apparecchiature per l’atterraggio, e provocando il ferimento del geologo Dixon. Dixon era morto due giorni dopo. Carlsen cercò di non lasciarsi vincere dall’apprensione.

— Siamo tutti un po’ agitati — disse. — Basta guardarla quella cosa… Sembra il castello di Frankenstein!

Dabrowsky disse: — Olaf, vuoi fare una breve dichiarazione?

Carlsen si strinse nelle spalle. Odiava l’aspetto pubblicitario delle esplorazioni, ma faceva parte del lavoro anche quello. Rassegnato, si sedette sullo sgabello di fronte alla minicamera.

Per incoraggiarlo Dabrowsky cominciò: — Come ci si sente all’idea di…

— Ecco, non sappiamo affatto che cosa troveremo là dentro. Non sappiamo niente di quell’astronave. Il professor Skeat dell’Osservatorio di Monte Palomar ritiene molto strano che quel relitto non sia stato notato prima date le sue dimensioni… una lunghezza di ottanta chilometri, più o meno. Gli astronomi sono riusciti a scoprire frammenti di asteroidi lunghi poco più di tre chilometri, servendosi della comparazione fotografica. Può darsi che questa gigantesca astronave sia risultata invisibile a causa del suo colore… è un grigio talmente opaco che non riflette la luce… Dunque, direi che… — S’interruppe. Aveva perso il filo.

Dabrowsky fu pronto a intervenire. — È un grande momento, dunque…

— Sì, certo, naturale… Siamo tutti eccitati… — Per quello che lo riguardava, non era vero. Carlsen era sempre calmo e controllato nei momenti decisivi. — Questo potrebbe essere il nostro primo vero contatto con forme di vita aliene, appartenenti ad altre galassie. D’altro canto, questa astronave potrebbe essere antica, molto antica, e i suoi…

— Antica quanto?

— Come diavolo faccio a saperlo? A giudicare dalle condizioni dello scafo potrebbe essere qui da un periodo che sta fra i diecimila anni e i dieci milioni di anni…

— Dieci milioni?

Carlsen perse la pazienza. — Oh, Cristo, ferma quella macchina! Credi di essere in uno studio cinematografico?

— Scusami, capo — gli diede una manata sulla spalla. — Non è colpa tua, Joe. Solo che io non sopporto tutte queste storie.

Si rivolse ai tre compagni che aspettavano, già pronti.

— Su, andiamo.

Entrò per primo nel compartimento stagno. Sarebbero passati uno per volta, per motivi di sicurezza. Le potenti calamite applicate alle suole delle scarpe simulavano l’esistenza della gravità. Quando si sporse a guardare nel baratro, Carlsen provò un senso di vertigine. Si spinse fuori con cautela, poi sbatté il portello alle sue spalle. Nel vuoto, il colpo non fece alcun rumore. Si diede una spinta con le mani, superò la distanza fra le due astronavi, poco meno di due metri, e passò dallo squarcio slabbrato. Aveva a tracolla la telecamera. La sua torcia elettrica non era più grande di una normale lampada, ma le batterie atomiche che la alimentavano permettevano di proiettare il raggio di luce per chilometri. Il pavimento metallico era a cinque o sei metri sotto di lui. Ma quando vi appoggiò i piedi, Carlsen rimbalzò in alto. Evidentemente era antimagnetico. Carlsen si lasciò posare, librandosi a testa in giù, leggero come un palloncino. Si sedette sul pavimento e rivolse il raggio della lampada verso lo squarcio da dove era entrato, per segnalare che tutto andava bene. Poi si guardò intorno.

Per un momento ebbe l’illusione di essere a Londra o a New York. Poi vide che le altissime strutture torreggianti che gli erano sembrate grattacieli erano in realtà colonne che andavano dal pavimento al soffitto lontano. Tutto aveva dimensioni incredibili. La colonna più vicina, quella a un centinaio di metri da lui, aveva le dimensioni dell’Empire State Building, e doveva essere alta più di trecento metri. Era cilindrica e scanalata. In cima si diramava come un albero. Fece scorrere la luce tutto intorno. Era come guardare lungo le navate di una gigantesca cattedrale, o fra i tronchi di una foresta incantata. Pavimento e colonne erano di colore perlaceo con sfumature verdi. La parete più vicina saliva diritta per oltre quattrocento metri, tutta coperta da strane figure e disegni colorati. Indietreggiò lentamente verso la colonna. Malgrado la sua assenza di peso un urto avrebbe potuto danneggiare la tuta spaziale. Poi si librò in alto. Allargò il raggio della lampada illuminando un’area di venti o trenta metri. Era così sbalordito che non gli era nemmeno venuto in mente di comunicare con gli altri. Gli arrivò la voce di Craigie. — Tutto bene, Comandante?

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