Eric Russell - Sarchiapone

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Anche pubblicato come “Cavebordo”, “Marchiodonte” ed “Allamagoosa”.

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Eric Frank Russell

Sarchiapone

Per la prima volta silenzioso dopo tanto tempo, il Bustler riposava nell’astroporto di Sirio; gli ugelli freddi, lo scafo rigato dai meteoriti, con quell’aria di corridore di fondo sfinito dopo la maratona, aveva tutte le ragioni per restarsene là, dopo essere tornato da una lunghissima crociera tutt’altro che priva di guai.

Adesso era riuscito a ottenere un ben meritato riposo nel porto, anche se temporaneo. Pace, dolce pace. Basta con le preoccupazioni, basta con le crisi, con le sorprese, con gli angosciosi problemi che sconvolgono improvvisamente un volo tranquillo almeno due volte al giorno… Soltanto pace.

Ah!

Il capitano McNaught si riposava nella sua cabina, i piedi sul tavolo di lavoro, e si godeva al massimo quella tranquillità. I motori spenti, le loro infernali vibrazioni scomparse per la prima volta dopo mesi e mesi. Là fuori, nella grande città, quattrocento dei suoi uomini facevano baldoria alla luce viva del sole. Quella sera, quando Gregory, il primo ufficiale, sarebbe tornato a bordo per il suo turno, lui sarebbe uscito nell’aria calda del tramonto e avrebbe fatto il giro di quella civiltà neon-litica.

Era questo, finalmente, il piacere di atterrare: gli uomini potevano scaricarsi, liberarsi di tutto quello che avevano accumulato, ognuno a modo suo: doveri, preoccupazioni, pericoli, responsabilità non esistevano più nello spazioporto, quell’oasi quieta e sicura per lo stanco navigatore.

Di nuovo: ah!

Burman, ufficiale marconista, entrò nella cabina: era uno della mezza dozzina di uomini rimasti in servizio e aveva l’espressione di uno che ha in testa almeno venti cose migliori da fare.

— Arrivato ora un messaggio, signore. — Dopo aver allungato il foglio, aspettò che l’altro lo guardasse ed eventualmente gli dettasse una risposta.

Mentre prendeva il messaggio, McNaught calò i piedi dal tavolo; poi si raddrizzò sulla sedia e lesse ad alta voce:

Q.G. Terra a Bustler. Restate Siriport fino nuovo ordine. Contrammiraglio Vane W. Cassidy arriverà diciassette. Feldman. Comando Opermarina, Settsirio.

Il capitano alzò gli occhi: ogni allegria era scomparsa dai suoi lineamenti duri. Gemette. — Qualcosa non va? — domandò Burman, con un indefinibile presentimento.

McNaught puntò il dito su tre libretti sopra il tavolo e disse: — Quello di mezzo. Pagina venti. — Sfogliandolo, Burman trovò un capoverso che diceva: Vane W. Cassidy, C. Amm., Ispettore Capo Navi e Depositi.

Burman deglutì a fatica: — Questo significa…?

— Esattamente — disse McNaught senza entusiasmo — torniamo indietro all’accademia e a tutte quelle fesserie. Vernice e sapone, sputo e lucido. — Prese un’aria ufficiale e parlò con voce adeguata: — Capitano, lei è in possesso di solo settecentonovantanove razioni di emergenza. La sua dotazione è di ottocento, e niente nel libro di bordo giustifica questa razione mancante: dove si trova? Che cosa è accaduto? Com’è che da uno degli armadietti dei suoi uomini manca un paio di bretelle, ufficialmente registrate? È stata segnalata la perdita?

Inorridito, Burman domandò: — Perché ha pescato proprio noi? Non ci aveva mai beccati, prima.

— È proprio questo, il perché — rispose McNaught guardando cupamente la parete: — È il nostro turno di fare il giro della chiglia. — Cercò con gli occhi il calendario: — Abbiamo tre giorni, e Dio sa se ci bastano! Dica al secondo ufficiale Pike di venire qui subito.

Burman partì, nero. Pike arrivò subito dopo: la sua faccia era la dimostrazione del vecchio adagio “le cattive notizie volano”. McNaught ordinò: — Mi faccia una bolletta per quattrocento chili di vernice plastica grigio marina, del tipo regolamentare. Poi me ne prepari un’altra per centoventi chili di smalto bianco per interni. Porti le bollette ai magazzini dell’astroporto qui fuori. Dica loro di procurare tutto per stasera alle sei, insieme con i pennelli e gli spruzzatori necessari. Si prenda tutto il materiale per la pulizia che riuscirà a trovare.

Pike osservò debolmente: — I ragazzi non saranno contenti.

— Saranno entusiasti — affermò McNaught. — Una nave fiammante e lustra, pulita a dovere, è ottima per il morale. Lo dice il manuale. Si sbrighi a portare quelle bollette; quando torna mi trovi le liste d’inventario delle provviste e dell’equipaggiamento e le porti qui perché dobbiamo controllare le dotazioni prima che arrivi Cassidy. Una volta che lui sarà qui non avremo più possibilità di procurarci quello che manca o filare fuori di contrabbando quello che ci trovassimo in più.

— Va bene, signore. — Pike uscì con la stessa faccia di Burman. McNaught mugolò tra sé e sé mentre si allungava sulla sedia: qualcosa sarebbe sicuramente saltato fuori all’ultimo minuto e avrebbe causato un guaio, se lo sentiva nelle ossa.

La mancanza di un oggetto sarebbe già stata qualcosa di serio, a meno che a suo tempo non fosse già stata segnalata; un’eccedenza sarebbe stata una brutta faccenda, davvero brutta. Mentre il primo caso avrebbe implicato una mancanza di cura o semplice sfortuna, il secondo avrebbe significato furto di proprietà governative compiuto in piena luce e in circostanze permesse dal comandante.

Per esempio, quel recente caso di Williams, dell’incrociatore pesante Swift : ne aveva avuto notizia dalle parti di Boote. Williams era stato trovato in possesso ingiustificato di undici rotoli di filo per recinti elettrificati, mentre la sua dotazione ufficiale era di dieci: c’era voluta la corte marziale per decidere che il rotolo in più, che su certi pianeti aveva un enorme valore come merce di scambio, non era stato rubato da un magazzino spaziale o “teletrasportato a bordo”, secondo il gergo dei naviganti. Tuttavia Williams era stato ammonito e questo non avrebbe certo favorito una promozione.

Stava ancora brontolando cupamente quando tornò Pike, recando un raccoglitore di fogli formato protocollo. — Si comincia subito, signore?

— Per forza. — Si rizzò in piedi, dando mentalmente un addio alla libera uscita e alla passeggiata tra le luci al neon. — Sarà una cosa abbastanza lunga, passarsela tutta da prua a poppa. Lascerò in ultimo l’ispezione agli armadietti dell’equipaggio.

Uscito a passo di marcia dalla cabina, si diresse verso la prua, seguito da Pike preoccupato e riluttante. Mentre passavano davanti al portello principale, aperto, Peaslake li scorse, balzò impaziente sulla passerella e li seguì; Peaslake, membro dell’equipaggio, era un grosso cane i cui antenati erano stati più esuberanti che selettivi. Portava un largo collare con la scritta: Peaslake — Proprietà A/N Bustler ; il suo compito principale, che svolgeva abilmente, era di tener lontani dall’astronave i roditori extraterrestri e, in rare occasioni, di fiutare i pericoli invisibili all’occhio umano.

Il trio avanzava in fila, McNaught e Pike con l’aria di uomini che con tristezza sacrificano il piacere davanti al dovere, e Peaslake ansimando di buona volontà e pronto ad affrontare qualsiasi nuovo giuoco.

Raggiunta la cabina di prua, McNaught si lasciò andare nel sedile del pilota e prese il raccoglitore dalle mani dell’altro: — Lei conosce questa roba meglio di me, è in sala di navigazione che rifulgono le mie doti. Quindi io leggerò le voci e lei farà il controllo. — Aprì il fascicolo e cominciò dalla prima pagina: — K1. Radiobussola tipo D, una.

— Sì.

— K2. Indicatore distanza e direzione, elettronico, tipo JJ, uno.

— Sì.

— K3. Misuratori di gravità di sinistra e dritta, modello Casini, un paio.

— Sì.

Peaslake piazzò il muso sulle ginocchia di McNaught, sbatté gli occhi comprensivo e uggiolò: cominciava ad afferrare il punto di vista degli altri. Quel noioso enumerare e controllare era un giuoco del cavolo. McNaught abbassò una mano consolatrice e giuocò con le orecchie di Peaslake senza smettere la lettura della lista. — K187. Cuscini gommapiuma, pilota e secondo, un paio.

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