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Fritz Leiber: Alea iacta est

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Fritz Leiber Alea iacta est

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Anche pubblicato come “Per muovere le ossa”, “Le ossa devono rotolare” e “Far rotolare le ossa”. I premi Hugo e Nebula in 1968.

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Fritz Leiber

Alea iacta est

Improvvisamente Joe Slattermill capì con certezza che avrebbe dovuto uscire alla svelta se non voleva dar fuori di testa e distruggere con i frammenti della sua scatola cranica i puntelli e i rappezzi che reggevano a fatica l’abitazione, che poi era una specie di casa di compensato e intonaco e tappezzerie, se si eccettuava l’enorme caminetto e i forni e la canna fumaria che stavano di fronte a lui in cucina.

Quelli sì che erano di pietra massiccia. Il caminetto arrivava all’altezza del mento ed era lungo almeno il doppio del solito, un inferno di fiamme crepitanti. Sopra di esso c’era la fila degli sportelli quadrati dei forni, dove sua Moglie aveva cucinato per parte della loro vita. Sopra i forni correva una mensola lunga quanto tutta la parete, troppo alta perché ci arrivasse sua Madre o su cui Mister Guts riuscisse ancora a saltarci sopra, ingombra di un sacco di anticaglie, ma tutti gli oggetti che non erano di pietra o di vetro o di porcellana erano così disseccati e anneriti a opera di decenni di calore che ormai sembravano solo teste umane mummificate o palle da golf annerite. Un’estremità era ingombra delle bottiglie squadrate di gin di sua Moglie. Sopra la mensola era appesa una vecchia cromolitografia, così in alto e così annerita dalla fuliggine e dal grasso che non si capiva più se quella forma di tozzo sigaro fra strane volute fosse un vapore dal ponte bombato che sfidava un uragano o un’astronave che si lanciava attraverso una tempesta di particelle cosmiche spinte alla velocità della luce.

Non appena Joe fece tanto di piegare le dita dei piedi dentro gli stivaletti, sua Madre capì che cosa intendeva fare. — Vai a girovagare — mormorò la donna con convinzione. — E le tasche dei pantaloni piene di carrettate e di soldi necessari per la casa, da spendere per peccare. — E tornò a masticare lunghi brandelli di carne che con la destra strappava alla carcassa di tacchino posta vicino a quel terribile calore, mentre con la sinistra stava pronta a tener lontano Mister Guts, che la fissava con i suoi occhi gialli, il corpo scheletrico e la coda rognosa vibrante. Con indosso quel suo vestito sporco, tutto striato come i fianchi del tacchino, la Madre di Joe sembrava un sacchetto di carta reclinato su un lato e le sue dita ricordavano ramoscelli bitorzoluti.

Anche la Moglie di Joe l’aveva capito, anzi forse da prima, e gli sorrise a occhi socchiusi, eretta davanti al forno centrale. E prima che la donna chiudesse lo sportello, Joe riuscì a intravedere due sfilatini piatti e una pagnottella più alta che cuocevano. Nella sua vestaglia violacea, la donna sembrava il simbolo della morte e di tutte le malattie. Senza guardare allungò un lunghissimo braccio scheletrico verso la più vicina bottiglia di gin, ne ingollò un robusto sorso e sorrise di nuovo. Così, senza che avesse parlato, Joe intuì quel che gli aveva detto: “Tu adesso esci e vai a giocare, ti ubriacherai e scoperai una troia. Poi quando tornerai a casa mi riempirai di botte e finirai in prigione”. E d’improvviso lui rivisse la scena dell’ultima volta, quando si era trovato in una rozza cella buia e lei era venuta sotto il chiaro di una luna che le faceva risaltare i bernoccoli verdi e gialli del cranio allungato, dove lui l’aveva colpita, per confabulare con lui attraverso la finestra e passargli tra le sbarre un quarto di gin.

Anche questa volta sarebbe finita così, o forse anche peggio, Joe ne era sicuro, ma si alzò lo stesso con le tasche appesantite che mandavano un suono metallico e strascicò i piedi in direzione della porta, biascicando: — Vado a far rotolare le ossa. Faccio un tratto di strada e torno subito. — E per dare una nota scherzosa a quanto aveva detto, fece oscillare le braccia dai gomiti ossuti, simili a pale di mulino.

Uscendo, tenne per un istante la porta socchiusa, poi la chiuse, in preda a una profonda tristezza. Tempo addietro, Mister Guts sarebbe sfrecciato dietro di lui per attaccar briga e dare la caccia alle femmine su tetti e steccati, ma adesso quel vecchio gattone preferiva starsene a casa a ronfare accanto al fuoco, cercando di sgraffignare un po’ di tacchino e di evitare i colpi di ramazza e civettando con le due donne condannate a stare lì dentro. Dietro Joe si sentirono solo gli ansiti e i masticamenti di sua Madre, il rumore della bottiglia di gin rimessa sulla mensola e il gemito dell’impiantito di legno sotto i suoi passi.

Le stelle gelide illuminavano a stento una notte buia. Alcune di esse sembravano muoversi, simili agli ugelli incandescenti di astronavi. In basso, tutta quanta la città di Ironmine sembrava aver spento le luci ed essersi messa a dormire, abbandonando strade e piazzuole a brezze notturne e fantasmi, parimenti invisibili. Ma Joe si trovava ancora nella zona che conservava l’acre odore di muffa del legno divorato dai vermi e, mentre camminava tra l’erba secca del prato che gli accarezzava i polpacci, sentì per chissà quale istinto atavico che tutto era programmato e lui, la casa, sua Moglie, sua Madre e Mister Guts sarebbero finiti insieme. Era già un miracolo se il calore della cucina non aveva incendiato completamente la casa come uno zolfanello.

Curvo, si avviò non sulla strada asfaltata, ma sui sentieri in terra battuta che costeggiavano il cimitero di Cypress Hollow, in direzione di Night Town.

L’aria notturna era dolce, ma stasera era insolitamente inquieta e capricciosa, come un ballo di folletti. Oltre la staccionata del cimitero, dipinta di bianco e sbilenca, quasi sfocata nel chiarore stellare, la brezza carezzava gli alberi macilenti del cimitero che sembravano agitare le barbe di muschio. Joe avvertì che i fantasmi erano anch’essi irrequieti, non sapendo bene dove andare o chi potevano impaurire o indecisi se prendersi una notte di riposo, muovendosi senza meta in derelitta e malfamata compagnia. Fra gli alberi vagavano bagliori di vampiri rossi e verdi, fosforescenti e sgraziati, simili a lucciole impazzite o a una flotta spaziale in preda a un’epidemia. Joe si sentiva sempre più abbattuto e depresso e desiderò di svoltare per andare a rannicchiarsi in una tomba spaziosa o davanti a qualche lapide semiabbattuta per sottrarsi al comune destino di morte con sua Moglie e con gli altri tre. “Vado a far rotolare le ossa, vado a farle girare e poi mi metto a dormire” pensò. Ma mentre stava ancora meditando sul da farsi, aveva già superato il cancello sbilenco, la staccionata folle e anche Shantyville.

Dapprima Night Town gli apparve senza vita come il resto di Ironmine, ma poi notò un barlume malsano, ma più vivace delle luci vampire, e un motivo a singulti, dapprima debolissimo, quasi fosse musica jazz per formiche. Proseguì lungo un marciapiede elastico, pensando con nostalgia alla elasticità perduta delle gambe, a quando era pronto a tuffarsi in una rissa come un felino o un ragno del deserto marziano. Dio, erano secoli, ormai, che non partecipava più a una vera zuffa e non sentiva più la forza. Pian piano la musica in sordina si fece roca come un boogie-boogie per orsi e rumorosa come una polka per elefanti, mentre il bagliore si trasformava in una miriade di luci a gas, di fiaccole e di tubi catodici blu cadavere, insegne sanguigne al neon che sogghignavano in direzione delle stelle tra cui sfrecciavano le astronavi. Infine si trovò di fronte a una falsa facciata a tre piani che sprizzava tutte le luci dell’arcobaleno dell’inferno, sormontata da un’escrescenza bluastra di fuoco di Sant’Elmo. Al centro c’era un’enorme porta ad ante mobili al di sopra e al di sotto della quale si riversava una cascata di luce e sopra di essa la gialla luce del neon scriveva in auree lettere svolazzanti “The Boneyard” e, sotto, in demoniache lettere scarlatte, “Giochi d’Azzardo”.

Così, aveva finalmente scoperto il nuovo locale di cui si parlava da tempo. Per la prima volta in quella notte, Joe Slattermill sentì sorgergli dentro un fremito di vita e una punta di eccitazione.

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