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Robert Silverberg: Invasori silenziosi

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Robert Silverberg Invasori silenziosi

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Stavano scendendo, adesso. Il tassì si abbassò in cerchi sempre più stretti sulla rampa dello Spaceway Hotel. Il maggiore Harris pagò il conducente, entrò nell’albergo e salì direttamente nella sua stanza, dove accese il comunicatore a raggio stretto: “Carver? Qui Harris.” “Harris! Hai potuto fuggire?” “Non esattamente. Mi hanno lasciato andare.” “E perchè? Come?” “E’ una lunga storia...” “Ma perchè ti hanno lasciato andare?” insistette Carver. “Sono diventato un loro agente” disse Harris in tono cordiale “La mia prima missione è quella di assassinarti.”

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All’improvviso lei alzò una mano, disegnando un rapido arco verso l’alto. Qualcosa brillò, lampeggiandole tra le dita.

Beth rise.

E Harris arretrò impotente, mentre il raggio paralizzante di una stordi-pistola lo colpiva in faccia con la forza di una clava. Era stata svelta, troppo. Harris aveva appena fatto in tempo a notare un movimento, che lei aveva già estratto l’arma nascosta.

La ragazza colpì ancora.

Lui lottò per afferrare il proprio annientatore, ma i muscoli non ubbidirono.

Rotolò in avanti, stordito, paralizzato.

4

Harris fu scosso da un brivido freddo e si svegliò, battendo i denti. Sentiva pulsazioni dolorose sul fondo dei globi oculari e un vuoto allo stomaco. La scarica aveva temporaneamente sovraccaricato i neuroni, e il corpo si era sottratto alla frustrazione della paralisi piombando nell’incoscienza.

Ora stava svegliandosi, e le forze rifluivano lentamente e dolorosamente nei muscoli. Tutto l’organismo era esaurito, sfinito.

La luce del mattino entrava, pallida, da una finestra depolarizzata che si apriva nella parete sinistra della stanza sconosciuta, dove lui si trovava. Non era impedito, non era legato, ma si sentiva rigido e dolorante dappertutto, ogni muscolo contratto e congestionato. Si chiese dove avesse trascorso la notte. Non certo in un letto. Probabilmente sul pavimento freddo di quella stanza.

Portò le mani alla fronte e premette forte. Il pulsante martellio sembrò cessare, ma fu un sollievo di breve durata. Non era uno scherzo restare stordito da un raggio paralizzante. Gli era capitato una sola volta prima di allora; un incidente involontario, durante una seduta di allenamento. Ora, invece, aveva ricevuto in pieno due scariche complete. La stordi-pistola era considerata un’arma poco pericolosa, ma i medici dicevano che l’organismo non poteva sopportare più di due o tre scariche in un anno. Una dose eccessiva, e i nervi avrebbero ceduto completamente, i muscoli si sarebbero inceppati… compreso il muscolo cardiaco e quelli che azionano i polmoni.

Harris si levò faticosamente in piedi e si guardò intorno. Era una cella, più che una stanza. La finestra si apriva in alto, fuori portata, ed era difesa da un’inferriata, per impedire la fuga. Non si vedevano porte. Evidentemente una sezione di una delle pareti girava su se stessa o scorreva, permettendo il passaggio: non potevano averlo introdotto in altro modo. Ma l’apertura doveva essere perfettamente mimetizzata, perché non si vedeva nessun segno nel muro.

Era in trappola.

Un bel guaio, per un Servo dello Spinto! Farsi raggirare da una ragazza (una medlinese, per di più); ingolfarsi in un caos di emozioni; lasciarsi sopraffare, stordire e catturare. Non era certo un rapporto che gli faceva onore. La sua missione sulla Terra era iniziata sotto cattivi auspici, e forse si sarebbe conclusa molto presto.

Guardò in alto. Nel soffitto c’era una griglia circolare, del diametro di circa diciassette centimetri. La presa dell’aria condizionata, senza dubbio. E probabilmente ospitava anche qualche dispositivo spia, che permetteva di sorvegliare e di comunicare con il prigioniero.

Fissò la griglia e disse, con voce aspra: «Okay, chiunque siate. Sono sveglio, ora. Potete venire a sistemarmi del tutto.»

Non ci fu una risposta immediata; solo un debole ronzio che lasciava indovinare la presenza di un orecchio elettronico all’interno del foro. Harris infilò una mano sotto la cintura e strinse tra due dita una piega di carne: un leggero pizzicotto che azionò un minuscolo amplificatore incassato in quel punto. Un segnale di pericolo partì verso ogni agente di Darruu che si trovasse nel raggio di mille e cinquecento chilometri. Poi Harris si grattò pigramente il torace e si stiracchiò, sbadigliando.

Aspettò.

Passarono due o tre minuti interminabili. Infine la sua attenzione fu attratta da un lieve rumore nella parete, e un istante dopo una porzione rettangolare di questa scorse verso l’alto, con un ingegnoso sistema che lui non riuscì a individuare.

Tre persone entrarono nella cella.

Harris ne riconobbe una: Beth. Si era cambiata e indossava una tunichetta fresca e semplice. Gli sorrideva con autentica cordialità, per niente turbata dal tentativo di ucciderla che lui aveva compiuto la notte precedente.

«Buon giorno, maggiore» disse dolcemente.

Harris la guardò con freddezza, poi fissò gli altri due personaggi che la seguivano.

Uno era un terrestre dall’aspetto comune, senza particolari caratteristiche e di statura inferiore alla media. L’altro, invece, era fuori dell’ordinario: alto più di un metro e ottanta, proporzionato in rapporto all’altezza e con lineamenti regolari che sembravano incredibilmente belli perfino a un darruuese.

«Maggiore Abner Harris, già Aar Khiilom di Darruu, questo è Paul Coburn, dei servizi segreti di Medlin» disse Beth, indicando il terrestre di aspetto comune.

«Piacere» disse placidamente il medlinese chiamato Paul Coburn, allungando una mano.

Harris fissò la mano con aria sprezzante e non la strinse. Sapeva che cosa significava una stretta di mano sulla Terra, e non aveva intenzione di scambiarla con un agente del servizio segreto di Medlin.

Beth non sembrò affatto turbata dalla mancanza di educazione del prigioniero. Indicò il gigante e disse: «E questo è David Wrynn, della Terra.»

«Un terrestre autentico? Nato e cresciuto su questo pianeta?» chiese ironicamente Harris. «Oppure uno sintetico, ottenuto in laboratorio, come tutti noi?»

Wrynn sorrise cordialmente. «Vi garantisco che sono un prodotto locale, maggiore.» La sua voce aveva le risonanze profonde di un violoncello bene accordato, e il suo sorriso era così pieno di cordialità, che Harris si sentì a disagio.

Allora incrociò le braccia e fulminò tutti con un’occhiata. «Davvero gentile da parte vostra pensare alle presentazioni» disse. «E adesso, che si fa? Si gioca a carte? A scacchi? Si prende un tè?»

«Sempre bellicoso» mormorò Beth all’altro medlinese. Coburn annuì e sussurrò qualcosa che Harris non riuscì ad afferrare. Il gigantesco terrestre aveva un’aria dolce, tranquilla, per niente turbata.

Harris li guardò tutti con freddezza e sbottò: «Se avete intenzione di torturarmi, perché non cominciate subito e la fate finita?»

«E chi ha parlato di torturarvi?» disse Beth.

«Perché mi avreste portato qui, allora? Evidentemente volete strapparmi delle informazioni. Sbrigatevi» disse lui. «Fate quello che dovete fare. Sono pronto.»

Coburn rise e si accarezzò le morbide pieghe di carne sotto il mento. «Credete forse che non sappiamo che sarebbe inutile torturarvi?» disse con mitezza. «Se tentassimo di entrare nella vostra mente attraverso le vie neurali, le cellule della vostra memoria reagirebbero automaticamente, andando in corto circuito.»

Harris restò un attimo a bocca spalancata, scioccato. «Chi vi ha detto che…»

Si fermò. I Medlinesi avevano certo un’organizzazione spionistica efficientissima. Il circuito filtro del suo cervello era una novità segretissima, nota solo ai chirurghi e agli agenti di Darruu.

«Calmatevi e ascoltateci, per favore» disse Beth. «Non siamo venuti affatto per torturarvi. Parlo sul serio. Sappiamo già tutto quello che potreste dirci voi.»

«Ne dubito. Comunque, parlate pure.»

«Sappiamo quanti agenti di Darruu si trovano sulla Terra e sappiamo anche pressappoco dove si trovano.»

«Ah, sì?»

«Siete in dieci, no?»

Lui non fece una piega. Questo è un trucco per trovare conferma alle loro deduzioni.oppure sono informati davvero? «Forse dieci e forse diecimila» disse, con un’alzata di spalle.

«Dieci» dichiarò Beth. «Neanche uno di più. È proprio la verità. Soltanto dieci.»

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