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Edmund Cooper: Uomini e androidi

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Edmund Cooper Uomini e androidi

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Nel sottosuolo vicino a Londra viene scavato un immenso magazzino dove, grazie a opportuni accorgimenti, potranno essere conservati enormi quantitativi di generi alimentari. Lo scopo dell’impresa è quello di preservare le scorte di cibo da un inquinamento radioattivo, nel caso che si scateni una guerra atomica. Dei lavori si è interessato l’ingegnere John Markham. Così, quando viene segnalata una irregolarità negli impianti elettronici, è Markham a scendere nei sotterranei per un controllo. A un tratto, una scossa violentissima, seguita da altre, poi un crollo improvviso. L’ingegnere pensa a un terremoto o a un errore di costruzione. Comunque, lì vicino c’è una delle tante nicchie col telefono collegato all’esterno. Vi arriva scavalcando i detriti, ma l’apparecchio non funziona. Be’, si tratterà di aspettare un po’. Fuori si accorgeranno che è successo qualcosa e scenderanno a cercarlo. E deve proprio essere andata così perchè Markham, adesso, è in un lettino. Si sente un po’ debole ma è sano e salvo. Però ha freddo. Molto freddo. E quella donna che si china su di lui è Katy! No, non è lei. Ma Dio Santo come le assomiglia. E quello strano dottore che dice cose tanto strampalate... Insomma, affrettatevi a leggere questo romanzo per poter dire a John Markham dove esattamente si trova e cosa gli è successo.

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Marion-A era più alta di Katy. I suoi lineamenti era­no più simmetrici, le spalle più larghe, i fianchi più snelli, la vita più sottile. Troppo perfetta per essere vera.

Indossava una semplice camicetta rossa di maglia e una gonna nera. Appuntata sulla camicetta, proprio alla gola, c’era una spilla d’argento. Guardandola me­glio, Markham vide che si trattava esattamente di un monile a forma di A. L’iniziale di androide. Nel caso ,pensò cinicamente, che qualcuno dovesse nutrire dub­bi in proposito.

«Sì, signore» rispose Marion-A. «È l’usanza, per ogni essere umano adulto, tenere un androide persona­le.» Restava immobile, subendo l’esame di lui senza mostrare alcuna reazione.

«Sai qualcosa sul mio conto?» chiese bruscamente Markham.

«So soltanto, signore, che provenite dal ventesimo secolo, perché siete stato preservato per caso in A.S. L’archeologo che vi ritrovò ha dichiarato che la vostra sospensione dovette cominciare quindici o diciotto de­cenni fa.»

Markham sorrise amaro. «Mica male... la data effet­tiva è il mille novecentosessantasette.»

«Sì, signore.» Marion-A si chiuse nel silenzio e ri­mase immobile ricambiando lo sguardo fisso di lui con indifferenza totale.

Ora che aveva superato la sorpresa iniziale, Mark­ham era in vena di fare domande.

«Dammi la definizione di androide» disse fredda­mente.

«Un androide, signore, è un automa modellato sul­lo stile di un essere umano.»

«Soltanto una macchina, dunque?»

«Sì, signore, essenzialmente una macchina.»

«Qual è la funzione degli androidi allora?» Lo sguardo di lui si fece quasi insolente. Si stava compor­tando come un bambino, e ci trovava gusto. Se ne sta­va comodo sul divano, ma aveva lasciato lei in piedi. Oziosamente, si chiese se sarebbe rimasta in piedi fin­ché lui non le avesse ordinato di sedersi.

«La funzione degli androidi» rispose Marion-A «è di assecondare gli interessi degli esseri umani.»

«Dunque, tu saresti un ibrido meccanico tra l’in­fermiera e la domestica?»

«Sì, signore» disse lei senza scomporsi. «Sono pro­grammata anche per essere di compagnia.» Esitò. «Esi­stono due tipi principali di androidi: il tipo personale e quello esecutivo. Il primo funziona per il beneficio dell’individuo, il secondo per il beneficio della società.»

Markham si appoggiò comodamente ai cuscini e le rivolse un sorriso ironico. «Parlami di loro. Ho molto da imparare riguardo il ventiduesimo secolo. Tanto vale che cominci dal soggetto interessantissimo degli androidi.» La vista di lei che se ne stava in piedi là di fronte, senza dare alcun segno di stanchezza o di in­dignazione, cominciava a irritarlo. «Scusa» disse im­pacciato, sentendo di arrossire. «Mettiti a sedere.»

«Grazie signore.» Marion-A tirò a sé uno sgabello di legno bianco. Poi, col tono impersonale di un confe­renziere, cominciò a illustrare lo sviluppo dei robot.

Durante e dopo la guerra atomica, l’Epopea dei No­ve Giorni, le popolazioni della maggior parte dei pae­si industrializzati di tutto il mondo erano state ridotte a percentuali minime della loro precedente densità. Ma coloro che erano morti in conseguenza diretta del­l’uso delle armi atomiche non erano stati niente in confronto al numero dei morti causati da malattie, pestilenze e carestie dei dieci anni che seguirono.

Essendo uno dei paesi più densamente popolati, l’In­ghilterra fu naturalmente una delle nazioni più col­pite. Nel 1967 la sua popolazione era di sessantacinque milioni di abitanti. I Nove Giorni e il decennio che seguì ridussero quel numero a poco più di sessanta­mila.

Questi sessantamila sopravvissuti erano chiaramente troppo pochi per mantenere in piedi l’economia della nazione. E poiché la monarchia era stata distrutta dal­la guerra, il paese mancava perfino di un simbolo di unità. Il governo era inefficiente e risibile, perché era impossibile aumentare le forze di polizia e imporre l’osservanza delle leggi.

Non andò molto, quindi, che il concetto di unità nazionale venne completamente abbandonato, e la na­zione si divise in tre gruppi regionali autonomi: la Scozia, le Midlands e il Sud. Nel frattempo, la caren­za di manodopera aveva costretto gli scienziati e gli in­gegneri sopravvissuti a dedicarsi allo sviluppo dei ser­vo-meccanismi, dell’automazione, e infine dei robot.

Automi e computer elettronici erano entrati nella loro fase di vero perfezionamento all’inizio del mille novecentoquaranta. Ma poiché a quell’epoca la mano­dopera abbondava, erano stati progettati semplicemen­te per assolvere funzioni che andassero al di là della capacità umana in termini di energia e di tempo, op­pure che fossero troppo pericolose.

I primi computer erano stati macchinari ingombran­ti, su per giù della grandezza di una casa. In cinquant’anni, la nuova tecnica li aveva ridotti alla misura di un baule. I primi robot erano stati creature pesanti, mostruose, simili a carri armati. Anche loro, in segui­to, subirono riduzioni nella misura e migliorie nella forma.

Al principio, erano stati progettati per espletare compiti insoliti o pericolosi. Poi divennero sostituiti di normali braccianti, agricoltori e impiegati. Inoltre, per far sì che le macchine esistenti, alle quali erano destinati, non dovessero subire modifiche, i robot era­no stati ridotti alla forma e alla dimensione di un uomo.

Alla fine, poiché il numero dei robot aumentava di conserva con la loro adattabilità industriale, essi fu­rono in grado di mandare avanti tutta l’industria pe­sante e l’agricoltura, con l’aiuto di pochi supervisori umani che s’incaricavano di risolvere problemi che an­davano oltre la portata dei microcervelli elettronici.

Arrivò l’epoca in cui fu evidente che la lotta per la preservazione dell’industria era vinta. Gli automi, che già superavano in numero i loro padroni, avevano vin­to una battaglia che gli esseri umani non avrebbero potuto nemmeno iniziare.

Fino a quel momento, c’erano voluti gli uomini per costruire robot. Ma ormai era stato raggiunto lo sta­dio in cui un automa veniva progettato in maniera da poter costruire un altro automa. Ben presto, venne creato il primo impianto di produzione completamen­te indipendente, dove automi superspecializzati progettavano e fabbricavano altri robot del loro tipo. I robot controllavano ormai il proprio processo evolu­tivo.

Nel frattempo, soddisfatta la richiesta per il robot industriale, rimaneva da soddisfare quella per uso do­mestico. I robot avevano risolto il problema della ma­nodopera maschile. Seguiva, inevitabilmente, quello della manodopera femminile: cominciò a farsi sentire il bisogno di un tipo di robot che assomigliasse più a un essere umano che a una lavatrice animata; in bre­ve, di un robot che fosse in grado di presentarsi in sa­lotto e nella camera dei bambini, e non solo in cucina. Un robot che potesse servire a tavola, occuparsi dei bambini, rifare i letti e spolverare il soggiorno. Un ro­bot capace di preparare cocktail, di raccontare favo­le, di giocare a scacchi, o a bridge, a briscola. Un ro­bot che ricordasse i compleanni e gli appuntamenti. Un robot che sapesse intrattenere, conversando, le per­sone sole e assistere i vecchi...

Nasceva l’era degli androidi.

I primi modelli rassomigliavano a leggere armature medievali. Poi il processo umanizzante andò via via perfezionandosi. Nuove tecniche permisero di risolve­re il problema del peso; di conseguenza, i piedi si fe­cero snelli e di forma umana. Lo sviluppo della micro­pila, una centrale di corrente atomica in miniatura, permise alla sorgente dell’energia di essere contenuta in una capsula di piombo poco più grande di un cuo­re umano. Mani meccaniche vennero modellate sullo stile umano. La testa venne umanizzata e separata dal busto per mezzo di un collo. E finalmente, i contorni simili a carne vennero ricoperti da una pelle sinteti­ca, una capigliatura naturale fu applicata per mezzo di una calotta di plastica, si creò una faccia con occhi, orecchie, naso e bocca artificiali. E labbra capaci di sorridere.

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