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Edmund Cooper: Uomini e androidi

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Edmund Cooper Uomini e androidi

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Nel sottosuolo vicino a Londra viene scavato un immenso magazzino dove, grazie a opportuni accorgimenti, potranno essere conservati enormi quantitativi di generi alimentari. Lo scopo dell’impresa è quello di preservare le scorte di cibo da un inquinamento radioattivo, nel caso che si scateni una guerra atomica. Dei lavori si è interessato l’ingegnere John Markham. Così, quando viene segnalata una irregolarità negli impianti elettronici, è Markham a scendere nei sotterranei per un controllo. A un tratto, una scossa violentissima, seguita da altre, poi un crollo improvviso. L’ingegnere pensa a un terremoto o a un errore di costruzione. Comunque, lì vicino c’è una delle tante nicchie col telefono collegato all’esterno. Vi arriva scavalcando i detriti, ma l’apparecchio non funziona. Be’, si tratterà di aspettare un po’. Fuori si accorgeranno che è successo qualcosa e scenderanno a cercarlo. E deve proprio essere andata così perchè Markham, adesso, è in un lettino. Si sente un po’ debole ma è sano e salvo. Però ha freddo. Molto freddo. E quella donna che si china su di lui è Katy! No, non è lei. Ma Dio Santo come le assomiglia. E quello strano dottore che dice cose tanto strampalate... Insomma, affrettatevi a leggere questo romanzo per poter dire a John Markham dove esattamente si trova e cosa gli è successo.

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Epping a Natale. Il mondo della vigilia. Un albe­rello nel soggiorno, con le candeline colorate e i pal­loncini di vetro lucente. La luce del caminetto dan­zava intima sulle pareti e sui mobili. Il vago fragore di Londra chiuso completamente fuori da un univer­so privato.

Johnny Boy e il suo treno elettrico. Sarah con un orsacchiotto due volte più grande di lei. Katy con uno scatolone che conteneva la sua prima pelliccia.

Johnny Boy stralunava, gli occhioni. «Voglio fargli trasportare dieci vagoni. Fa’... Tu sei il capostazione.»

Sarah strillava: «Orso mio, orso papà, orso mio, or­so papà...»

Katy precisava: «Prego, madamigella, quest’orso qui è proprio mio! La mia pelliccia!»

Buon Natale: a Katy, a Johnny Boy, a Sarah. Buon Natale: a Londra, a Mosca, a Washington. Pace sulla terra, agli uomini di buona volontà. Il mondo è rin­savito.

L’uomo sul carrello cominciò a cantare: « Merry Christmas!... »Si interruppe, aprì gli occhi, fissò le fi­gure candide attorno a sé e urlò. Poi tacque con gli occhi serrati, rotolò su un fianco e lentamente, peno­samente, si tirò le ginocchia fino al mento. L’ultimo sogno era il peggiore. L’ultimo sogno era l’ultima real­tà. Tutto il resto era solo illusione, il prodotto di una mente che stava cercando scampo, ma non poteva sot­trarsi alla realtà.

Gennaio, a Epping. Pioggia, nevischio, neve. Altra pioggia. Il cielo strisciava più basso sulla foresta, come un sudario.

«È la camera K, signor Markham. Una falla nel­l’automatico. Si è inceppato.»

«Maledizione» diceva il fantasma. «Manda giù qualcuno. Chiama Martin.»

«Il signor Martin è andato a casa, signore. Ha l’in­fluenza.»

«Andrò giù io, allora.»

Dentro la galleria. Passi che risonavano come la mar­cia di un esercito, i passi di un fantasma. Giù, giù nel­la terra, un fantasma imbacuccato come un esquime­se. Attraverso la prima botola. Giù per la scaletta di metallo, quindici piuoli. Aprire la seconda botola. Giù di nuovo. Strisciare attraverso il pannello di ispezione dentro la camera K.

Gelo. Gelo dappertutto. Hans Anderson... Il Palaz­zo della Regina delle Nevi. Casse di cibo ammucchia­te in nitide falangi gelate, che si levavano al cielo. Niente, salvo un silenzio gelato; l’impiantito è una lastra di ghiaccio azzurrognolo. Chi aveva detto che l’automatico si era inceppato, accidenti? Funzionava perfettamente. Qualcuno aveva giocherellato con gli strumenti nella stanza di controllo. La camera K sareb­be rimasta congelata per mille anni. Congelata dal suo stesso calore. Il grande congelamento mantenuto da motori alimentati da estrazione di calore. Movimento perpetuo. Finché la temperatura di un miliardo di me­tri cubi di terreno non fosse divenuta stabile... il che non sarà mai. Meravigliosa, la scienza!

Il fantasma cammina su e giù per i corridoi della camera K, tendendo l’orecchio al silenzio ghiacciato, fissando le casse ricoperte di bianco, le montagne or­dinate di cibo.

Poi, improvvisamente, l’impiantito trema. Il ghiac­cio si lamenta, scricchiola, si rompe. Le casse di cibo danzano assurdamente scivolando fuori dalle file or­dinate, rimbalzando e slittando lungo l’impiantito che si solleva. Il fantasma viene gettato in alto di peso, scaraventato come un birillo per tutta la lunghezza di un corridoio. Un fragore violento riempie la camera K, prorompendo dalle pareti, dal tetto, dalle lastre sfal­date di ghiaccio; il fragore si gonfia in una vibrazione che prende il sopravvento su tutto: perfino sul pen­siero stesso.

Il rumore cresce, finché pare che la terra voglia spac­carsi in due in conseguenza di quella colossale scarica di energia. Poi, di colpo, silenzio. La danza frenetica delle casse di cibo si quieta. Quel silenzio e quell’im­mobilità sono anche più intollerabili del sollevamento stesso.

Terremoto! Mentre scivola sulle crepe e sui detriti, il fantasma tenta disperatamente di convincersi che si è trattato di un terremoto. Un normale terremoto, per quanto grave, lo si può affrontare. Ma l’altra causa no, no per amore del cielo!

Il pannello di controllo è sepolto sotto un mucchio di casse, del peso di cento tonnellate almeno. Il fan­tasma fissa istupidito quella montagna di scatole am­mucchiate alla rinfusa. Poi si ricorda del telefono di emergenza e prende a strisciare su un mare di cibo congelato. Occorre molto tempo per sgomberare il pic­colo recesso del telefono dai rifiuti. Troppo, il freddo intenso sta già insinuandosi attraverso le vesti, pene­tra nel corpo. Si toglie i guanti, alita sulle dita già insensibili, fissa inebetito i piccoli ghiaccioli. Poi rie­sce ad aprire la porticina dello sportello isolato, affer­ra l’apparecchio e comincia a gridare. La linea è in­terrotta!

Scuote il telefono, lo martella con i pugni, lo pren­de a calci. L’apparecchio è muto. Impreca, quasi per costringerlo a funzionare. Alla fine lo scaraventa a ter­ra e scoppia in singhiozzi.

Lottare contro il panico! Pensare a Katy, ai bambi­ni! Torna strisciando verso la montagna di casse che ostruisce il pannello di ispezione. Comincia a lottare per aprirsi la strada, sapendo benissimo di non avere abbastanza tempo davanti a sé. Le braccia si muovono con gesti ormai incoerenti, le dita rifiutano di strin­gere la presa. Le gambe non lo sostengono più. Si rial­za, striscia verso un’altra cassa sconquassata, cade e ri­mane immobile.

Troppo freddo per pensare, ormai! Troppo freddo per recriminare o sperare. Troppo freddo per fare qual­siasi cosa, tranne abbandonarsi a un profondo senso di pace. Quello è il palazzo della Regina delle Nevi. Il termine del viaggio...

«Ci sarà la guerra, John?» Cara lontana Katy.

«È la stagione della guerra» risponde il fantasma. «Torna regolarmente, come per il calcio, per la caccia.»

Comincia a pregare. E il freddo s’insinua inesorabi­le, sempre più in fretta, finché a metà di una preghie­ra il fantasma chiude gli occhi e si addormenta. Nien­te sogni, ormai. Solo un’ultima visione di Katy, in ca­micetta a righe, con un fascio di documenti.

«Avete visto il Commissario e... »

Più nulla! Assolutamente nulla.

L’uomo sul carrello si svegliò, girò lo sguardo per la stanza, comprese di non trovarsi più nella camera K. L’avevano tirato fuori, alla fine. Ora voleva andare a casa.

Una donna in camice bianco, in piedi accanto al carrello, lo stava osservando. L’uomo si tirò su.

«Quanto tempo sono rimasto qui?»

«Parecchi giorni, signore. Non preoccupatevi. Ora starete benissimo.»

«Gran Dio! Mia moglie lo sa?»

«Restate sdraiato, prego. Uno sforzo al momento vi farebbe male.» L’accento della donna era strano, incolore. La voce pareva uscire da un dittafono.

«Sto benissimo. Voglio andarmene a casa.»

«Dovete riposare, signore. Non potete ancora muo­vervi! Vi consiglio un sedativo.»

«Al diavolo i sedativi. Voglio... Dove sono?» Si guardò attorno incuriosito. La stanza era assolutamen­te spoglia, ma notò che le pareti erano rivestite di ma­teriale isolante.

«Questa è una camera di congelamento, signore. Vi trovate nel Risanatorio di Londra-Nord.» La voce della donna era di una uniformità monotona, la faccia quasi inespressiva.

L’uomo era affascinato da quella faccia. Sebbene la donna non potesse avere più di venticinque anni, era in un certo senso senza età... come una maschera. Quell’immobilità cominciò a disturbarlo in modo indefi­nibile. La guardò meglio. Era alta, bruna, formosa, ma stranamente priva di femminilità. Statuaria, ecco la pa­rola. Nonostante il grembiule bianco, sembrava appe­na scesa da un piedistallo.

Cercò di riordinare le idee. «Perché mi avete messo in camera di congelamento?» chiese irritato. «Sono appena stato tirato fuori da un’altra.»

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