Frank Long - In una piccola città

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In una piccola città: краткое содержание, описание и аннотация

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Bobby Jackson è apparentemente un ragazzo normale, e altrettanto normali sembrano i coniugi Martin, nuovi arrivati, in una piccola città americana come ce ne sono a migliaia: Lakeview. Ma non lontano da Lakeview c’è la caverna detta di Gover, e ciò che succede là dentro potrà coinvolgere nello stesso tremendo pericolo non solo un maestro di scuola, una bibliotecaria, un barista e altri tipici personaggi della provincia americana, ma… tutta la Terra.

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Parlando, continuai a fissarlo. Avevo acceso la lampadina, do­po avergli fatto spegnere la sua, perché gli tremava forte la mano e io volevo che l’imbocco, oltre la svolta, fosse sempre ben illu­minato. Ma la luce era sufficiente perché potessi seguire il gioco delle espressioni sulla sua faccia.

Dapprima era incredulo, poi, man mano che parlavo, mi ac­corsi che cominciava a credermi.

Non so se riuscii a convincerlo del tutto. Era difficile stabilire, dalla sua espressione, fino a che punto accettasse le mie parole, e fosse in grado di sopportare la realtà delle cose.

Quando ebbi finito, rimase immobile per un momento, con gli occhi fissi sui corpi stesi a terra. Cadendo, la signora Martin ave­va dimenticato che la bellezza e la grazia devono sempre andare di pari passo in una donna, e ora non era più tanto bella e nemmeno tanto “umana”. I capelli le coprivano la faccia nasconden­done le fattezze. Le forme, prima tanto graziose, si erano inflaccidite, come se il meccanismo avesse cominciato a scaricarsi pri­ma che lei finisse di muoversi e avesse così dato inizio a quella se­rie di cambiamenti che distruggono le illusioni.

Quando finalmente il signor Dyson alzò gli occhi per guardar­mi, non dubitai più: mi credeva, era perfettamente in sé ed era riuscito ad accettare quello che gli avevo detto. Almeno, quasi tutto. Sarebbe stato impossibile il contrario, in quanto quello che aveva visto con i propri occhi suffragava la veridicità delle mie parole, e faceva sì che non dubitasse più della vera natura dei sei corpi.

A questo punto, tolsi del tutto il blocco mentale che gli avevo imposto. Leggendo il dolore e il tormento nei suoi occhi, temetti sulle prime di aver commesso uno sbaglio.

— Tu sai dov’è Laura — disse. — Ma questo vuol dire che la puoi salvare?

— Nulla è certo fin quando non si è fatto — gli risposi. — Ma ora le loro menti sono assopite. Non credo che sappiano che sia­mo qui, né che abbiano modo di saperlo fino al risveglio. Non so­no infallibili, e sebbene i Martin mi tenessero sotto stretta sorve­glianza, ci sono molte cose che non hanno nemmeno cominciato a sospettare, sul conto di Bobby Jackson. Erano i Martin che sor­vegliavano la caverna e li avvertivano.

— Ci sono molte cose che io ignoro, sul conto di Bobby Jack­son — dichiarò lui, con tale disperata foga che non potei fingere di non averlo sentito. Ma stavo già incamminandomi, e pensai che era meglio proseguire nel buio, sicuro che adesso non si sa­rebbe rifiutato di accompagnarmi.

12

Laura Hartley

Alternai angosciosi periodi di sonno e di veglia, con la certezza che mi avrebbero ucciso. Nei momenti di lucidità vedevo solo una nuda parete grigia, a tre o quattro metri dal punto in cui ero seduta con le mani legate dietro la schiena, e su quella parete c’era un continuo alternarsi di luci e ombre che si aggrovigliavano senza mai assumere un significato preciso.

Quanto durerà ancora?, mi chiedevo angosciata. La fine arri­verà mentre dormo? E sarò così esausta da non riuscire a muo­vermi né a supplicare i miei carnefici quando mi verranno incon­tro con le loro armi terribili?

E come saranno quelle armi? Come saranno loro? Enormi e informi, fusi con le ombre, privi di viso ma non di vista? E io, co­me sarò io ai loro occhi? Riuscirò a sembrare una creatura così minuscola, atterrita, così pietosa da destare in essi un fremito di compassione? Oppure, e questo è assai più probabile, dovranno uccidermi, distruggermi a causa di quanto ho visto?

Di quanto ho visto… sì. Ora lo so. Una faccia strappata e rifat­ta. Com’erano educati, formali e gentili, i Martin, quando si fini­va per conoscerli! Il “signor” Martin mi parlava anche quando doveva svolgere un compito che certo per lui non era facile. Tra­sformare il muro del ristorante in energia nucleare radiante e far­mi passare attraverso di esso con l’ausilio di un tubo luminoso che avrebbe potuto distruggerci tutt’e due se lui avesse fatto il minimo errore di calcolo, dev’essere stato molto difficile.

Ma questo non gli impedì di confessare quanto già sapevo fin dal primo momento in cui l’avevo visto strapparsi la faccia vicino alla finestra della biblioteca. Lui non era umano… e non lo era nemmeno la signora Martin.

Allora mi aveva avvertito che mi avrebbe ucciso, e quando le parole si formarono nella mia mente avrei dovuto capire e sapere che era inutile lottare quando mi comparve alle spalle, al risto­rante.

Ma l’avvertimento non era stato preciso, ed egli si scusò anche per quello. Il significato delle parole era che loro mi avrebbero uccisa. Ma prima volevano osservarmi da vicino per un certo pe­riodo, per vedere fino a che punto sarebbe giunta la mia dispera­zione e se sarei stata ancora capace di odiarli e di sfidarli. Io avrei dovuto diventare una specie di barometro vivente per dare a loro la possibilità di “misurare” il grado di resistenza che la razza umana avrebbe opposto quando tutte le città e i villaggi della Terra sarebbero stati invasi dai vari Martin. Io ero una fra i primi a scoprire la verità sui Martin di Lakeview, per questo ero impor­tante ai loro occhi. Ma solo per un po’, solo per poco tempo. C’e­ra anche un giovane che dovevano uccidere e lo tenevano sotto osservazione in un’altra stanza grigia dove le luci e le ombre si al­ternavano di continuo sui muri, e i Martin andavano a parlargli di tanto in tanto così come venivano a parlare con me. Era un ven­ditore ambulante di enciclopedie e aveva commesso l’errore di bussare alla porta dei Martin in un momento sbagliato, proprio quando il signor Martin cominciava… be’, a scaricarsi. Succede­va, ogni tanto. Gli pulsavano gli occhi, e questo era il primo sin­tomo. Voleva dire che se non tornava al più presto alla Gower Cavern sarebbe diventato cieco e sordo.

Tutta questa storia avrebbe potuto essere molto divertente, in un certo senso; divertente come una farsa surreale se purtroppo non fosse stata vera. E non c’era niente di farsesco nel ritrovarsi in una stanza — compartimento, meglio — tutta grigia a chiedersi perché continuavo a resistere.

No, non era affatto divertente.

A volte riuscivo a chiudere gli occhi, stringendo forte le palpe­bre e indugiavo su un’altra verità che poteva essere consolante a patto di non evitarla come quasi tutti fanno. Perché dovevo avere paura di morire dal momento che tutti devono morire? Un av­venimento universale può essere davvero così brutto come lo di­pingono? Possibile che la natura, nonostante tutte le crudeltà di cui è prodiga, sia anche capace di attuare una cosa tanto irragio­nevole su una scala tanto ampia? Voglio dire, è possibile che la morte sia davvero così come comunemente la si dipinge? Dev’es­serci qualcosa nella morte, un segreto profondamente nascosto e che non abbiamo ancora scoperto. Ma quando lo scopriremo, forse la morte non sarà più così terribile.

L’unico inconveniente era che quando chiudevo gli occhi a quel modo cominciavo ad appisolarmi, tanto ero esausta, e non c’è nulla di consolante nei sogni che si fanno durante un sonno in­terrotto da periodi di veglia che sono peggio di un incubo.

Non feci molto caso al bagliore che, dapprima tenue, si accese sulla parete, perché le ombre continuavano a muoversi e anche le luci, muovendosi, diventavano a tratti più intense. Per due o tre minuti l’ignorai completamente, o almeno mi sforzai d’ignorarlo. Ero certa che il gioco di luci e ombre veniva proiettato sulla pare­te da mezzi meccanici e costituiva parte dell’esperimento d’osser­vazione che compivano sulla mia mente, come le frequenti visite dei Martin.

Ma la nuova luce era più ferma e continuava ad aumentare di volume e d’intensità. Cosicché, dopo poco fui costretta a consta­tare che la parete cessava d’essere una solida barriera tridimen­sionale perché attraverso essa stava passando una figura circon­data da un alone luminoso.

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