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Vernor Vinge: Naufragio su Giri

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Vernor Vinge Naufragio su Giri

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Come il pianeta Tschai della celebre quadrilogia di Jack Vance, anche Giri non scherza: creato fin nei minimi dettagli dalla fantasia di Vernor Vinge, è un mondo pittoresco e avventuroso popolato da una miriade di razze e tribù bellicose, alle quali non è per niente facile inculcare il concetto di Pax Galattica. Ma questo sarebbe niente se almeno su Giri ci fosse una remota possibilità di sopravvivenza… Invece: sostanze velenose e piante poco raccomandabili, complotti di corte e intrighi tribali, violenze e pericoli, guerre e sacrifici. I due terrestri sbarcati su questo mondo pazzesco per una spedizione scientifica, e costretti a restarvi loro malgrado, si accorgeranno che c’è poco da stare allegri soprattutto quando, per tentare l’unica via di fuga, dovranno partecipare a un piano sanguinoso e assecondare la volontà di un principe folle.

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Yoninne lo interruppe con un gesto d’impazienza. — Per favore , Bjault. Possono anche esserci dei particolari misteriosi in questa civiltà, ma in fondo non abbiamo proprio nulla da temere. Sappiamo per certo che gli Azhiri non possiedono né atomiche né l’elettricità. Per quello che abbiamo potuto constatare non conoscono nemmeno la polvere da sparo. Vivono bene, immagino, ma sono ancora primitivi.

“E poi, dov’è finito il tuo spirito di avventura? In fondo, è solo la quinta volta in tredicimila anni che la razza umana si imbatte in un’altra specie intelligente, o anche solo nelle testimonianze della sua esistenza. Diavolo, per me sarebbe proprio una sorpresa se non ci fossero misteri. — Girò una manopola sul telecomando e la slitta fece perno sul pattino di sinistra per evitare un grosso masso. Loro la seguirono, calpestando le tracce profonde che il veicolo si lasciava alle spalle. Nevicava, e il cielo coperto rendeva il crepuscolo ancora più scuro di quanto non sarebbe stato in condizioni normali.

— Credimi, Yoninne, sono entusiasta… sebbene sospetti che ci siamo imbattuti in una colonia perduta. In ogni caso credo che dovremmo aspettare e guardarci intorno meglio, prima di chiamare la nave traghetto. La spedizione ne ha solo tre e non sono sicuro che ne distoglierebbero un’altra dalla colonia su Novamerika, se noi ci trovassimo nei guai.

— Per fortuna, Draere non la pensa come te. Quando le ho inviato l’ultimo messaggio non vedeva l’ora di abbandonare la minuscola isola dimenticata da Dio dove è rimasta inchiodata in questi giorni. Su con la vita! Avrai presto altre persone con cui dialogare, oltre a me.

Vero, ringraziando il cielo, pensò Bjault. Accese il regolatore termico e adeguò il suo passo a quello di Leg-Wot. La neve, fradicia e pesante, in quel momento cadeva tanto fitta da nascondere completamente il villaggio e l’oceano. In quella oscurità, la ragazza e la slitta sembravano poco più che ombre. Nessun alito di vento faceva frusciare i sempreverdi contorti attorno a loro. Gli unici suoni erano il lievissimo fruscio della neve sotto i passi, il ronzio dei motori della slitta e il debole ma incessante sospiro della neve che cadeva nella foresta.

La fitta nevicata era stata una delle ragioni per cui Draere e gli altri ufficiali avevano scelto proprio quella notte per l’atterraggio. In tutto quel turbinio, gli indigeni non avrebbero potuto cogliere le immagini della nave traghetto in atterraggio, e persino il suono dei reattori sarebbe stato notevolmente attutito dai fiocchi di neve che riempivano l’aria. E siccome non c’era vento, il veicolo non avrebbe avuto alcuna difficoltà a dirigersi automaticamente verso il riflettore radio che lui e Leg-Wot avevano sistemato nella valle, sette chilometri a nord della città.

Ormai l’oscurità era quasi completa, ma Yoninne Leg-Wot guidava con sicurezza la slitta verso il valico tra le colline antistanti. A volte, lui non poteva fare a meno di ammirarla. Tra le altre qualità, la ragazza possedeva anche uno straordinario senso di orientamento. Se tutto ciò che la colonia di Novamerika era disposta a perdere in quella ricognizione a terra consisteva in una coppia di emarginati sociali, ebbene, non avrebbero potuto far di meglio che assegnare la missione a Yoninne Leg-Wot e al vecchio archeologo Ajao Bjault. Niente sentimentalismi, si disse Ajao. Alla tua età non saresti mai riuscito a ottenere un posto da colonizzatore senza la considerazione di un bel po’ di gente. E sei stato molto più fortunato di quanto meritassi a trovare, nello stesso sistema solare, ben due pianeti abitabili, di cui uno addirittura rallegrato dalla presenza di razze intelligenti. Ti sembra proprio il caso di lamentarti della carriera in declino?

Scosse la testa per liberarla dalla neve e si tirò il cappuccio sul viso. C’era qualcosa di molto tranquillizzante in una fitta e tranquilla nevicata. Se non fosse stato per il peso continuo della maggiore forza di gravità di quel pianeta, l’archeologo avrebbe quasi potuto immaginarsi di ritorno sul suo Mondo Natale, a dieci parsec di distanza. Quasi quarant’anni della sua esistenza.

Leg-Wot rallentò il passo, fino ad affiancarlo. — Credo che qualcuno ci segua — disse in un soffio.

— Cosa? — La sua risposta si collocò a metà tra un sibilo e un grido.

— Hai capito bene. Prendi questo e dammi il maser — continuò lei, porgendogli il telecomando della slitta. — E ora continuiamo a camminare. Credo che si tratti di una creatura isolata, che preferisce mantenersi a distanza.

Bjault seguì le istruzioni senza obiettare e cercò di aguzzare lo sguardo nell’aria sempre più grigia. Fatica inutile. Era già abbastanza difficile individuare in tempo i pini per scansarli prima che la slitta andasse a sbatterci contro. Yoninne doveva aver captato qualche rumore. Aveva un udito molto più sensibile del suo.

Alla sua destra, la ragazza mosse nervosamente le dita per regolare il maser. Lo puntò verso il cielo, in direzione nord, e pronunciò i segnali di richiamo convenzionali parlando nel microfono del cappuccio, senza ottenere risposta. Non c’era da sorprendersi. Per risparmiare carburante, la nave stava effettuando una discesa a motori spenti, sfruttando l’atmosfera del pianeta per rallentare la corsa. Senza dubbio, era momentaneamente impossibilitata a ricevere comunicazioni.

Leg-Wot attese due minuti prima di ripetere il richiamo e immediatamente negli auricolari di Bjault risuonò la voce allegra di Draere.

— Ehi, laggiù! — esclamò la voce, ignorando le procedure radio standard. — Ci troviamo a circa sessanta chilometri di altezza, e scendiamo in fretta. Niente paura, la posta arriverà in orario.

Yoninne descrisse la situazione alla nave in atterraggio.

— Okay. Ho capito — rispose Draere. — Se riuscite a tener duro per altri dieci minuti credo che andrà tutto bene. I reattori di atterraggio della nave traghetto bastano da soli a spaventare a morte chiunque non li conosca e, se non basta, a bordo ci sono anche le armi a fuoco di Holmgre e di tutto il suo plotone. Abbiamo lasciato solo qualche ripetitore radio automatico su quella miserabile isoletta. Rimanete in contatto. Dovreste captarci da un momento all’altro, con i vostri omnidirezionali.

— Ricevuto, passo — replicò Leg-Wot. Avevano raggiunto il valico tra le colline e stavano per scendere dall’altra parte. Lì il manto nevoso era molto più spesso, frutto di molte precipitazioni. La slitta avanzava davanti a loro, in un turbinio di fiocchi di neve, con i pattini che funzionavano da battistrada nelle neve fresca. La ragazza riprese il telecomando dalle mani di Bjault e guidò il cammino lungo il pendio verso la scialuppa di ablazione.

L’archeologo continuava a non udire altro che il suono dei loro passi e il rumore della slitta che avanzava. Forse Yoninne aveva sentito solo qualche grosso animale, pensò rimettendo la mitraglietta nel fodero. Ne conoscevano l’esistenza: la loro barriera acustica di difesa doveva averne messo in fuga uno, solo il giorno prima.

Leg-Wot girò la slitta a destra di scatto, la lasciò proseguire per circa due metri, poi la fermò. Adesso il buio era completo. Ajao mosse qualche passo in avanti e per poco non inciampò su una collinetta ricurva, coperta solo da pochi centimetri di neve soffice. La scialuppa di ablazione. Bjault si appoggiò su un ginocchio e ne liberò con la mano parte dello scafo. In qualche modo era confortante avvertirne sotto i guanti il rivestimento di ceramica bruciacchiata, pur sapendo che non avrebbe mai più potuto volare. La scialuppa di ablazione non era altro che una carcassa sferica, con tre metri di diametro. All’interno c’era a malapena spazio sufficiente per due esseri umani, con la loro attrezzatura e il paracadute. L’apparecchio, minuscolo e privo di energia propria, era destinato in realtà a un’unica missione di volo. Veniva sganciato da una nave spaziale orbitante per scendere bruciando negli strati superiori dell’atmosfera fino all’altitudine e alla velocità necessari perché il paracadute si aprisse, assicurandogli un atterraggio dolce. Il principio della scialuppa di ablazione era vecchio e semplice come quello della ruota. Non c’era dubbio che la razza umana aveva riscoperto entrambi almeno una dozzina di volte negli ultimi tredicimila anni.

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