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Poul Anderson: Kyrie

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Poul Anderson

Kyrie

Su un alto picco dei Carpazi Lunari si erge il convento di Santa Marta di Betania. Le mura sono di roccia del luogo; si protendono, scure e dirupate, verso un cielo che è sempre nero. Avvicinandosi dal Polo Nord lungo la pista di Platone si può vedere la croce che sormonta il campanile stagliarsi rigida contro l’azzurro disco della Terra. Ma qui non risuonano rintocchi, non in assenza d’aria.

Si possono udire all’interno, durante le ore canoniche, e nelle cripte giù in basso, dove le macchine si sforzano di mantenere un’apparenza di ambiente terrestre. Con un po’ di pazienza, si potrà anche sentirle chiamare alla messa da requiem. Perché è diventata una tradizione, a Santa Marta, dedicare le preghiere a coloro che sono morti nello spazio; e, col passare degli anni, i morti aumentano sempre più.

Questo non è compito delle sorelle. E se si occupano degli ammalati, dei bisognosi, dei paralitici, degli squilibrati, di tutti coloro che lo spazio ha rovinato e ricacciato indietro. La Luna ne è piena, di questi esuli che non possono più sopportare la gravità terrestre o che si teme possano covare una malattia contratta in qualche sconosciuto pianeta o per i quali gli uomini non hanno più tempo da perdere. Le suore indossano indifferentemente le tute spaziali come gli abiti normali, e sanno tenere in mano sia il rosario che gli strumenti medici.

A loro è consentito un po’ di tempo per la contemplazione. Di notte, quando per metà del mese il sole non manda più i suoi raggi, la cappella è aperta e le stelle risplendono sulle candele attraverso la cupola trasparente. Esse non tremolano e la loro luce è fredda come l’inverno. In particolare una delle suore si trova lì il più spesso possibile, e prega per i suoi defunti. E la badessa si preoccupa che lei possa essere presente quando viene cantata la messa annuale, per la quale fece un’offerta prima di prendere i voti.

Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux

perpetua luceat eis.

Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison.

La spedizione Supernova Sagittario comprendeva cinquanta esseri umani e una fiamma. Partì dall’orbita terrestre, fermandosi ad Epsilon Aurigae per raccogliere l’ultimo membro. Di lì si avvicinò per gradi alla sua destinazione.

Questo è il paradosso: tempo e spazio sono aspetti l’uno dell’altro. L’esplosione era avvenuta da più di cent’anni quando fu notata dagli uomini di Lasthope. Essi facevano parte di uno sforzo durato generazioni per mettersi in contatto con civiltà di creature del tutto diverse da noi; ma una notte sollevarono lo sguardo e videro una luce così splendente da proiettare ombre.

Quell’onda luminosa avrebbe raggiunto la Terra parecchi secoli più tardi. Allora sarebbe stata così tenue che nel cielo non sarebbe apparso se non un altro puntino luminoso. Nel frattempo, però, una nave che scavalcasse lo spazio attraverso il quale scorreva la luce, avrebbe potuto rintracciare attraverso il tempo la morte della grande stella.

A distanza di sicurezza, gli strumenti avevano registrato quello che era successo prima dell’esplosione, un’incandescenza che sprofondava in se stessa dopo aver esaurito l’ultimo alimento nucleare. Un balzo, e videro ciò che era successo un secolo prima: uno sconvolgimento, una tempesta di quanti e di neutrini, una radiazione pari alle centinaia di miliardi di soli di questa galassia.

Svanì, lasciando un vuoto nel cielo, e la Raven si avvicinò. Cinquanta anni luce — cinquant’anni — più indietro, scoprì un globo di calore che si rimpiccioliva nel mezzo di una nuvola che risplendeva come fulmine.

Venticinque anni dopo il globo centrale si era ulteriormente ristretto, mentre la nuvola si era allargata e offuscata. Ma poiché la distanza era adesso molto minore, ogni cosa sembrava più grande e più luminosa. Il bagliore era troppo intenso per fissarlo a occhio nudo, e faceva impallidire, per contrasto, le costellazioni. I telescopi mostrarono una scintilla biancazzurra nel cuore di una nuvola opalescente, con i bordi ornati di delicati filamenti.

La Raven si preparò al suo balzo finale, diretto nelle immediate vicinanze della supernova.

Il capitano Teodor Szili effettuò l’ultimo giro d’ispezione. Intorno a lui la nave mormorava, accelerando a una gravità per raggiungere le velocità effettiva desiderata. I motori ronzavano, i regolatori stridevano, i sistemi di ventilazione frusciavano. Sentì le forze venirgli meno nelle ossa. Ma era circondato di metallo, freddo e inospitale. Gli oblò rivelavano un’orda selvaggia di stelle, e lo spettrale arco della Via Lattea: il vuoto, i raggi cosmici, la temperatura non lontano dallo zero assoluto, distanti al di là di ogni immaginazione dal più vicino focolare umano. Stava per condurre i suoi uomini dove nessuno era mai stato prima, in condizioni di cui non si sapeva nulla di sicuro, ed era un duro fardello.

Trovò Eloise Waggoner al suo posto, un cubicolo collegato per intercom direttamente con il ponte di comando. Fu accolto da una musica, una trionfante serenità che non riconobbe. Si fermò sulla soglia, e la vide seduta con un piccolo registratore sul banco.

«Che cos’è?», domandò.

«Oh!». La donna (non riusciva a pensare a lei come a una ragazza, malgrado avesse appena superato i vent’anni) sussultò. «Io… io stavo aspettando il balzo».

«Deve aspettare e stare all’erta».

«Perché?», replicò lei meno timidamente di quanto desiderasse. «Voglio dire, non faccio parte dell’equipaggio e non sono una scienziata».

«Lei fa parte dell’equipaggio. Tecnico per le comunicazioni speciali».

«Con Lucifero. E a lui piace la musica. Dice che, tra le cose che conosce di noi, è quella che più ci avvicina all’identità».

Szili aggrottò la fronte. «Identità?».

Le guance delicate di Eloise si imporporarono. Guardò il banco e intrecciò le mani. «Forse non è la parola esatta. Pace, armonia, unità… Dio?… Io afferro cosa intende dire, ma non abbiamo alcuna parola che ne renda il significato».

«Hmmm. Be’, tocca a lei tenerlo felice». Il comandante la fissò, sentendo riaffiorare quel senso di disgusto che aveva cercato di reprimere. Era una brava ragazza, pensò, sia pure in quel suo modo impacciato e inibito; ma com’era brutta! Magra, con i piedi grossi, il naso enorme, gli occhi sporgenti, i capelli stopposi color della terra… E poi, per dire la verità, i telepatici lo avevano sempre fatto sentire a disagio. Lei diceva di poter leggere soltanto nella mente di Lucifero, ma era vero?

No. Meglio non pensarci. Bastano la solitudine e la diversità a logorare i nervi, senza doverci aggiungere i sospetti sui propri compagni.

Chissà se Eloise Waggoner era davvero umana? Come minimo doveva essere una specie di mutante. Chiunque potesse comunicare attraverso il pensiero con un vortice vivente doveva esserlo per forza.

«Che cosa sta suonando, comunque?», le chiese Szili.

«Bach. Il terzo concerto brandeburghese. A lui, a Lucifero, non piace la musica moderna. E nemmeno a me».

È a te che non piace, decise Szili. Poi, ad alta voce: «Senta, noi facciamo il balzo fra mezz’ora. Non so dirle dove emergeremo. Questa è la prima volta che qualcuno si avvicina tanto a una supernova recente. Possiamo solo essere sicuri che ci sarà una radiazione intensissima e che, se gli schermi cedono, saremo spacciati. Del resto, non possiamo che basarci sulla teoria. E il nucleo di una stella che si disintegra è qualcosa di così differente da tutte le altre cose dell’universo che sono piuttosto scettico sulla bontà della teoria. Quindi non possiamo starcene qui a sognare ad occhi aperti. Dobbiamo essere preparati».

«Sì, signore». Ridotta a un bisbiglio, la sua voce aveva perso l’abituale asprezza.

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