Robert Silverberg - Il marchio dell'invisibile

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Il marchio dell'invisibile: краткое содержание, описание и аннотация

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Nessuno mendicò spiccioli da me.

Solo una volta un cieco mi si avvicinò. «In nome di Dio» biascicò «aiutatemi a comprare degli occhi nuovi alla banca degli occhi!»

Erano le prime parole, dopo mesi, che un essere umano mi rivolgeva direttamente. Cominciai a frugare nella tunica per dimostrargli la mia gratitudine con qualche dollaro. Non ci perdevo niente. Potevo aver tutto il denaro che volevo, bastava che lo prendessi. Ma prima che riuscissi a togliere i soldi di tasca una figura d’incubo s’infilò tra noi arrancando sulle stampelle. Afferrai una parola appena bisbigliata: «Invisibile!». Poi i due uomini strisciarono via come scarafaggi impauriti. Io rimasi là inebetito, con i miei soldi in mano.

Nemmeno i mendicanti!

La mia durezza si sciolse. La mia arroganza si dissipò. Ero e mi sentivo solo, adesso. Chi avrebbe più potuto accusarmi di freddezza? Ero pronto a ricevere, pateticamente affamato di parole, di sorrisi, di mani tese. Ero al sesto mese di invisibilità.

Adesso odiavo il mio stato. I piaceri che offriva erano trascurabili, i suoi tormenti angosciosi. Mi chiesi come avrei sopportato i restanti sei mesi. Credetemi, in quelle ore buie non fui molto lontano dall’idea del suicidio.

E arrivai a commettere un atto di follia. Durante una delle mie lunghissime camminate incontrai un altro Invisibile, il terzo o il quarto, forse, in sei mesi. Come era successo negli incontri precedenti, i nostri sguardi si incrociarono per un attimo. Poi lui abbassò gli occhi, si tirò da parte e passò via. Era un giovane snello con la faccia magra e dura, i capelli scuri, ispidi. Aveva l’aspetto di un uomo di scienza. Mi chiesi che cosa poteva aver fatto per meritarsi quella punizione, e mi venne il desiderio di corrergli dietro per domandarglielo, di conoscere il suo nome, di parlargli, di abbracciarlo.

Tutte cose proibite. Nessuno deve avere contatti con un Invisibile, nemmeno un compagno di invisibilità. “Soprattutto” un compagno di invisibilità. La società non ama incoraggiare segreti vincoli di amicizia tra i suoi paria.

Io lo sapevo.

Ciononostante mi volsi e lo seguii.

Camminai dietro di lui per tre isolati, mantenendo una distanza dai venti ai cinquanta passi. I robot della Sicurezza erano onnipresenti con le loro antenne rapidissime nel captare ogni infrazione, e non osavo fare la prima mossa. Poi l’uomo svoltò in una strada grigia, polverosa, antica di cinque secoli. Camminava con l’andatura molle dell’Invisibile che non ha meta. Mi avvicinai.

«Per favore…» dissi a bassa voce. «Qui non ci vede nessuno. Possiamo parlare. Mi chiamo…»

Si volse, con l’orrore negli occhi. Era pallido. Mi guardò un attimo, sconcertato, poi scattò in avanti con l’intenzione di aggirarmi.

Lo bloccai.

«Aspetti» dissi. «Non abbia paura. La prego!»

Mi superò di scatto. Gli misi una mano sulle spalle e lui si liberò con uno scarto.

«Soltanto una parola» supplicai.

Nemmeno una parola. Nemmeno un incollerito: «Lasciami in pace!».

Si scostò da me e corse per la strada deserta. Il rumore dei suoi passi si affievolì a poco a poco. Raggiunse l’angolo e svoltò. Lo guardai sparire e sentii tutta la mia solitudine.

Poi ebbi paura. Lui non aveva infranto le regole dell’invisibilità, ma io sì. Io l’avevo visto, e ciò mi rendeva soggetto a una nuova pena, forse un prolungamento del mio periodo di invisibilità. Mi guardai attorno, angosciato, ma non vidi nessun robot della Sicurezza.

Ero solo.

Cercai di calmarmi, e ripresi il cammino. A poco a poco riguadagnai il controllo dei miei nervi, e capii di avere commesso un imperdonabile atto di follia. Rimasi sconvolto dalla stupidità del mio gesto, ma ancora di più dalla sua natura sentimentale. Aggrapparmi a quella maniera a un altro Invisibile, ammettere così apertamente di sentirmi solo… No! Equivaleva a riconoscere la vittoria della società. Questo, mai.

Mi accorsi di essere per la seconda volta vicino al giardino dei cactus. Montai sull’elevatore, presi un gettone all’impiegata, ed entrai. Cercai per un po’ e alla fine trovai un cactus più contorto degli altri, un complicato mostro spinoso alto due metri e mezzo. Lo strappai dal suo vaso e ne ridussi in pezzi le braccia angolose riempiendomi le mani di migliaia di spine. La gente fece finta di non guardarmi mentre mi toglievo le spine dalle mani e poi, le palme sanguinanti, riprendevo l’elevatore, una volta di più sublimemente solo nella mia invisibilità.

Passò l’ottavo mese. Poi il nono e il decimo. La giostra delle stagioni aveva fatto quasi il giro completo. La primavera aveva ceduto il passo alla dolce estate, l’estate al frizzante autunno, l’autunno alle invernali nevicate quattordicinali ancora permesse per ragioni spettacolari. Poi l’inverno finì e nei parchi gli alberi germogliarono di gemme verdi. Quelli del controllo meteorologico si attennero al programma dei tre acquazzoni giornalieri.

La mia condanna stava per finire.

Durante il mio ultimo mese di invisibilità ero scivolato in una specie di torpore. La mia mente, costretta a rifugiarsi in se stessa, non si dedicò più a considerare i significati del mio stato, e di giorno in giorno sprofondai in una specie di confusione nebbiosa.

Presi a leggere alla rinfusa, con furia. Un giorno Aristotele, il giorno dopo la Bibbia, e un manuale di meccanica il seguente. Ma il mio cervello non tratteneva niente. Come passavo a una nuova pagina, le precedenti svanivano dalla mia memoria.

Non mi ero più occupato di sfruttare i pochi vantaggi offerti dall’invisibilità, di assaporare il gusto del potere dovuto alla consapevolezza di poter commettere qualsiasi cosa, con poco, o nessun rischio. Qualche rischio, naturalmente, c’è sempre, poiché l’esistenza di una legge sull’invisibilità non ha ancora del tutto annullato la natura umana. Ci sono uomini pronti a sopportare la pena dell’invisibilità pur di proteggere moglie e figli dai soprusi di un Invisibile. E nessuno permetterebbe certo a un Invisibile di strappargli gli occhi impunemente. Del resto esistono mezzi per violare la legge senza dimostrare di aver visto un Invisibile, ne ho già accennato.

Pure, si poteva farla franca quasi sempre. Dostoevskij ha scritto: “Senza Dio, tutto è possibile”. Posso modificare la sentenza così: “Per un Invisibile, tutto è possibile, ma niente ha interesse”.

I mesi passarono penosamente.

Non contai i minuti che mancavano ancora alla mia liberazione. Per dire la verità, dimenticai completamente che il periodo stava per scadere. Quel giorno stavo leggendo nella mia stanza, e voltavo imbronciato una pagina dopo l’altra, quando suonò il campanello.

Da un anno non suonava. Avevo quasi dimenticato cosa significasse quel suono.

Aprii la porta. Davanti a me c’erano gli uomini della legge. Senza parlare ruppero il sigillo che teneva saldato il marchio della mia fronte. L’emblema cadde e si spezzò.

«Buongiorno, cittadino» mi dissero.

«Buongiorno» risposi gravemente.

«È l’undici maggio 2105. La tua condanna è finita. Da oggi sei reintegrato nella società. Hai pagato il tuo debito.»

«Sì, grazie» dissi.

«Vieni a bere qualcosa con noi.»

«Preferirei di no.»

«È la tradizione. Vieni.»

Andai con loro. Avevo la sensazione che la mia fronte fosse stranamente nuda. Mi guardai in uno specchio e vidi che nel punto in cui era stato attaccato il marchio la pelle era più chiara. Mi portarono in un bar dei dintorni, e mi offrirono whisky sintetico, aspro e forte. Il barista mi sorrise. Un uomo seduto sullo sgabello vicino mi batté una mano sulla spalla e mi domandò chi fosse il mio preferito nella gara di razzi che avrebbe avuto luogo l’indomani. Non ne sapevo niente e glielo dissi.

«Ah sì?» disse lui. «Io ho scommesso su Kelso. Lo danno quattro a uno, ma ha uno scatto poderoso.»

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