Larry Niven - Ai confini di Sol

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Ai confini di Sol: краткое содержание, описание и аннотация

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C’era qualche discussione circa il fatto che l’universo fosse aperto o chiuso nello spazio quadri-dimensionale, ma Carlos spense il computer. — Benone — disse con aria soddisfatta.

— Che cosa?

— Potrei avere ragione. I dati sono insufficienti. Dovrò sentire cosa ne pensa Forward.

— Io spero che crepiate tutti e due. Vado a dormire.

Lì fuori, nell’ampia fascia di confine tra il Sistema di Sol e lo spazio interstellare, Julian Forward aveva trovato una massa di pietra grande come un asteroide di medie dimensioni. Da lontano, sembrava che la tecnologia non l’avesse toccata: era uno sferoide sbilenco, con la superficie ruvida, color bianco sporco. A distanza minore, il metallo e la vernice vivida spiccavano come gemme buttate a casaccio. Portelli stagni, finestre, antenne sporgenti e altre cose meno identificabili. Un disco illuminato con qualcosa che si protendeva al centro; un lungo braccio metallico con mezza dozzina di snodi sferici e una coppa all’estremità. Lo studiai, cercando d’immaginare cosa poteva essere… e rinunciai.

Portai l’ Hobo Kelly a fermarsi a una discreta distanza. Chiesi ad Ausfaller: — Lei resta a bordo?

— Naturalmente. Non farò nulla per togliere al dottor Forward la convinzione che la nave sia deserta.

Ci trasferimmo su Forward Station con un tassì aperto: due sedili, un serbatoio di combustibile e un motore a razzo. A un certo momento mi voltai per chiedere non so cosa a Carlos, ma invece gli domandai: — Carlos? Ti senti bene?

Era pallido e teso. — Ce la farò.

— Hai provato a chiudere gli occhi?

— E anche peggio. Cavolo, ce l’ho fatta ad arrivare fin qui grazie all’ipnosi. Bey, è così vuoto.

— Coraggio. Siamo quasi arrivati.

Il biondo della Fascia degli Asteroidi era davanti a uno dei portelloni. Aveva una tuta attillata e un casco sferico, e ci faceva segnalazioni con una torcia elettrica. Ormeggiammo il nostro tassì a uno sperone di roccia (la gravità era quasi inesistente) ed entrammo.

— Io sono Harry Moskowitz — disse il biondo. — Mi chiamano Angel. Il dottor Forward è in laboratorio.

L’interno dell’asteroide era una rete di corridoi diritti e cilindrici, scavati con il laser, pressurizzati e fiancheggiati da fasce luminose azzurre. Noi pesavamo qualche chilo vicino alla superficie, e anche meno nell’interno. Angel si muoveva in un modo che per me era nuovo: spiccava dal pavimento un salto piatto che lo portava molto avanti nel corridoio fino a sfiorare il soffitto, poi si spingeva di nuovo verso il pavimento e spiccava un altro salto. Dopo tre balzi si fermò ad aspettarci, senza nascondere il divertimento per i nostri tentativi di stargli dietro.

— Il dottor Forward mi ha chiesto di farvi da guida — ci disse.

Gli chiesi: — Mi sembra che qui ci siano molti più corridoi del necessario. Perché non radunate insieme tutte le camere?

— L’asteroide era una miniera, una volta. Furono i minatori ad aprire le gallerie. Lasciarono grandi cavità ogni volta che trovavano rocce contenenti aria o sacche di ghiaccio. Non abbiamo dovuto far altro che murarle.

Questo spiegava perché c’erano tratti così lunghi di corridoio fra le porte e perché le camere che vedevamo erano così grandi. Alcune erano magazzeni, disse Angel, e non valeva la pena di aprirli. Altre erano officine, sistemi di supporto vitale, un giardino, un grosso computer, una centrale a fusione di proporzioni non trascurabili. Nella mensa che poteva servire trenta persone ce n’erano una decina, tutti uomini, e ci guardarono incuriositi prima di riprendere a mangiare. Un hangar, più grande del necessario e aperto al cielo, accoglieva tassì e tute a razzo con attrezzi specializzati; e c’erano rampe circolari identiche, tutte vuote.

Provai a giocare d’azzardo. Con aria volutamente noncurante, chiesi: — Avete qualche rimorchiatore minerario?

Angel non esitò. — Sicuro. Possiamo spedire acqua e metalli dall’interno del sistema, ma costa meno cercarceli noi. E in caso d’emergenza, probabilmente i rimorchiatori ce la farebbero a portarci al sicuro.

Ritornammo nelle gallerie e Angel disse: — A proposito di navi, non credo di averne mai vista una come la vostra. Sono bombe , quelle cose allineate sulla superficie ventrale?

— Certune sì — risposi.

Carlos rise. — Bey non vuol dirmi come ha fatto a procurarsela.

— Insisti, eh? E va bene, l’ho rubata , e non credo che qualcuno si lamenterà.

Angel, che prima era francamente incuriosito, rimase addirittura affascinato quando gli raccontai che ero stato ingaggiato per pilotare un mercantile nel sistema di Wunderland. — Non mi piaceva molto la faccia del tizio che mi aveva ingaggiato, ma cosa potevo saperne degli abitanti di Wunderland? E avevo bisogno di quel denaro. — Parlai della sorpresa che era stata vedere le proporzioni della nave: la paratia dietro la sala comando, il settore passeggeri che era semplicemente una serie di olografie negli oblò ciechi. A quel punto, dissi, avevo temuto che se avessi cercato di tirarmi indietro mi avrebbero fatto sparire.

Ma quando avevo saputo qual era la destinazione, mi ero preoccupato ancora di più. — Era nel Serpent Stream… sa, quella mezzaluna di asteroidi nel Sistema di Wunderland. Lo sanno tutti che la Lega per la Liberazione di Wunderland ha sede proprio là, su quei sassi. Quando mi hanno dato la rotta, io sono partito e mi sono diretto a Sirio.

— È strano che le avessero lasciato un hyperdrive funzionante.

— Cribbio, non me l’avevano lasciato. Avevano strappato i relays. Ho dovuto ripararli personalmente. Per fortuna ho controllato, perché avevano collegato i relays a una piccola bomba sotto il sedile di guida. — M’interruppi. — Ma forse l’ho riparato male. Ha sentito quello che è successo? Il mio motore hyperdrive è sparito. Devono essere saltati i bulloni esplosivi, perché il ventre della nave è scoppiato. Era fasullo. Quello che è rimasto sembra un bombardiere tascabile.

— È quel che pensavo anch’io.

— Credo che dovrò consegnarla alla polizia, quando raggiungeremo il sistema interno. Peccato.

Carlos sorrideva e scrollava la testa. Per giustificare quella reazione, disse: — Questo dimostra che sai sfuggire ai tuoi problemi.

L’ultimo tunnel finiva in una grande camera emisferica sovrastata da una cupola trasparente. Una colonna grossa come un uomo saliva dal pavimento di roccia fino a una chiusura al centro della cupola. Al di sopra di quella specie di tappo, un braccio metallico snodato si tendeva ciecamente nello spazio. Il braccio finiva in qualcosa che sembrava una gigantesca ciotola per cani costruita in ferro.

Forward stava a una console a ferro di cavallo accanto alla colonna. Lo notai appena. Avevo già visto quel braccio snodato, ma non mi ero reso conto delle dimensioni.

Forward si accorse che ero rimasto a bocca aperta. — L’Arraffa — disse.

Si avvicinò a noi con un’andatura balzellante, comica ma funzionale. — Lieto di conoscervi, Carlos Wu, Beowulf Shaeffer. — La sua stretta di mano non mi stritolò le ossa solo perché ci stava attento. Aveva un sorriso simpatico. — L’Arraffa è la cosa più sensazionale che abbiamo qui. Dopo l’Arraffa non c’è niente da vedere.

Io chiesi: — A che cosa serve?

Carlos rise. — È magnifico. Perché è necessario che serva a qualcosa?

Forward accettò con garbo il complimento. — Sto pensando di mandarlo a una mostra di scultura. In effetti, serve per manipolare masse grandi e dense. Il ricettacolo all’estremità del braccio è un complesso di elettromagneti. Posso far vibrare le masse, lì dentro, per produrre onde di gravità polarizzate.

Sei massicce travature ad arco dividevano la cupola in altrettante sezioni. Notai che le travature e la chiusura al centro brillavano come specchi. Erano rinforzate da campi di stasi. Un ulteriore supporto per l’Arraffa? Cercare di immaginare quali forze potevano richiedere una simile robustezza.

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