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Carlo Collodi: Le avventure di Pinocchio

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Carlo Collodi Le avventure di Pinocchio

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— Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio, ballando dall'allegrezza. - Appena che questi zecchini li avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voialtri due.

— Un regalo a noi? — gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. - Dio te ne liberi!

— Te ne liberi! — ripeté il Gatto.

— Noi — riprese la Volpe — non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.

— Gli altri! — ripeté il Gatto.

— Che brave persone! — pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell'Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:

— Andiamo subito, io vengo con voi. -

Capitolo XIII

L'osteria del «Gambero Rosso».

Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all'osteria del Gambero Rosso.

— Fermiamoci un po' qui — disse la Volpe — tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all'alba, nel Campo dei miracoli. -

Entrati nell'osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.

Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!

La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre, si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d'uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.

Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccio di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo, col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un'indigestione anticipata di monete d'oro.

Quand'ebbero cenato, la Volpe disse all'oste:

— Datemi due buone camere, una per il signor Pinocchio e un'altra per me e per il mio compagno. Prima di ripartire stiacceremo un sonnellino. Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio.

— Sissignori — rispose l'oste, e strizzò l'occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: «Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!…»

Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo e principiò a sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un campo, e questo campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e questi grappoli erano carichi di zecchini d'oro che, dondolandosi mossi dal vento, facevano zin, zin, zin, quasi volessero dire «chi ci vuole, venga a prenderci.»Ma quando Pinocchio fu sul più bello, quando, cioè, allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca, si trovò svegliato all'improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta di camera.

Era l'oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era sonata.

— E i miei compagni sono pronti? — gli domandò il burattino.

— Altro che pronti! Sono partiti due ore fa.

— Perché mai tanta fretta?

— Perché il Gatto ha ricevuto un'imbasciata, che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita.

— E la cena l'hanno pagata?

— Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate, perché facciano un affronto simile alla signoria vostra.

— Peccato! Quest'affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! — disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi domandò:

— E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?

— Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno. -

Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partì.

Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell'osteria c'era un buio così buio che non ci si vedeva da qui a lì. Nella campagna all'intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente, di tanto in tanto, alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all'altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale facendo un salto indietro per la paura, gridava: — Chi va là? - e l'eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza: — Chi va là? chi va là? chi va là? -

Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente.

— Chi sei? — gli domandò Pinocchio.

— Sono l'ombra del Grillo-parlante — rispose l'animaletto con una vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là.

— Che vuoi da me? — disse il burattino.

— Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono rimasti, al tuo povero babbo, che piange e si dispera per non averti più veduto.

— Domani il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini diventeranno duemila.

— Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito o sono matti o imbroglioni! Dài retta a me, ritorna indietro.

— E io invece voglio andare avanti.

— L'ora è tarda!…

— Voglio andare avanti.

— La nottata è scura…

— Voglio andare avanti.

— La strada è pericolosa…

— Voglio andare avanti.

— Ricordati che i ragazzi che vogliono fare di capriccio e a modo loro, prima o poi se ne pentono.

— Le solite storie. Buona notte, Grillo.

— Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini. -

Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto, come si spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase più buia di prima.

Capitolo XIV

Pinocchio, per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo-parlante, s'imbatte negli assassini.

- Davvero — disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio — come siamo disgraziati noi altri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci dànno dei consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco qui: perché io non ho voluto dar retta a quell'uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai. Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andar fuori la notte. E poi se anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno. Anderei loro sul viso, gridando: «Signori assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!» A questa parlantina fatta sul serio, quei poveri assassini, mi par di vederli, scapperebbero via come il vento. Caso poi fossero tanto ineducati da non volere scappare, allora scapperei io, e così la farei finita… -

Ma Pinocchio non poté finire il suo ragionamento, perché in quel punto gli parve di sentire dietro di sé un leggerissimo fruscìo di foglie.

Si voltò a guardare, e vide nel buio due figuracce nere, tutte imbacuccate in due sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi.

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