Iain Banks - Complicità
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- Название:Complicità
- Автор:
- Издательство:Longanesi
- Жанр:
- Год:1996
- Город:Milano
- ISBN:88-304-1337-2
- Рейтинг книги:3 / 5. Голосов: 1
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Afferro la vecchia campana e la faccio suonare una volta: produce un suono piatto, vuoto, adatto a un funerale. La poso con cautela sull’altare di pietra e mi guardo intorno, osservando la striscia di lago chiusa dalle montagne e, sopra di esse, le nuvole.
Silenzio. Non un uccello, niente vento, nessuno che parla. Mi volto lentamente, facendo un giro completo su me stesso, osservando le nuvole. Penso che questo sia il posto più tranquillo in cui sia mai stato.
Mi avvio tra le piccole lapidi, fredde e graffiate, e trovo Yvonne che sta fissando a occhi spalancati un’alta pietra tombale. Euphemia McTeish, 1803-1822, e i suoi cinque bambini. Morta di parto. Suo marito è morto vent’anni dopo.
Andy si avvicina a noi, bevendo dalla sua fiaschetta; sorride e scuote la testa. Fa un cenno verso il punto in cui si trova William; è salito sul muro della cappella e sta scrutando il lago con un piccolo binocolo. «Voleva costruire una casa qui», dice Andy. E scuote ancora la testa.
« Cosa? » esclama Yvonne.
«Qui?» ripeto. «In un cimitero? È pazzo? Non ha letto Stephen King?»
Yvonne, gelida, osserva il marito. «Parlava di costruire una casa quassù, ma non sapevo che intendesse… proprio qui.» Distoglie lo sguardo.
«Ha cercato di convincere le autorità locali proponendo loro una fornitura di computer… Un vero affare», spiega Andy, ridacchiando. «Ma non ci sono stati. Per il momento, si è dovuto accontentare del permesso di essere sepolto qui.»
Yvonne si scuote. «Il che potrebbe accadere molto prima di quanto si aspetti», dice, avviandosi a passi decisi verso la cappella. William sta guardando giù, verso l’interno dell’edificio, e scuote la testa.
È una giornata mite, ma piove forte; la pioggia cade fitta dal cielo color piombo, continua e penetrante, picchiettando forte sull’erba, sui cespugli e sugli alberi intorno a noi.
La salma di William riposa nel terreno grasso e torboso dell’isola oscura. Secondo il rapporto del coroner, William è stato colpito alla nuca, ha perso i sensi ed è morto per soffocamento.
Yvonne, pallida e bellissima in un abito nero e con il viso velato, ringrazia con brevi cenni della testa i presenti per le loro affettuose parole, e mormora qualcosa. La pioggia batte sul mio ombrello. Lei mi rivolge un’occhiata, incontrando il mio sguardo per la prima volta da quando sono qui. Ho fatto appena in tempo: avevo un appuntamento all’ospedale per questa mattina — altri esami — e ho dovuto attraversare tutto il Paese, prima fino a Rannoch, e poi verso la costa occidentale. Ma ci sono arrivato, sono arrivato a casa dei Sorrell, ho salutato il padre e il fratello di William, ho visto Yvonne per un attimo, però non ho avuto occasione di parlarle; quindi è arrivato il momento di mettersi in marcia, lungo la strada che gira intorno alle montagne, scende verso la punta estrema del lago e verso l’albergo, s’inerpica per il sentiero fino all’approdo, posto esattamente di fronte a Eilean Dubh, dove due piccole barche ci hanno traghettati. La seconda portava la bara.
Per via della pioggia, la cerimonia officiata dal sacerdote è breve; quando il reverendo ha finito, c’incolonniamo verso il molo, in attesa che la barchetta a remi ci riporti a quattro per volta sulla terraferma; Yvonne rimane immobile sulle vecchie pietre del molo rese lisce dal tempo e riceve le condoglianze degli altri ospiti. Mi fermo a guardarla. Siamo tutti un po’ ridicoli perché, oltre agli abiti neri molto formali, indossiamo stivali di gomma — qualche paio è nero, ma i più sono verdi — per affrontare l’erba infangata dell’isola. Yvonne riesce a sembrare sexy e dignitosa anche con quelli. Ma, forse, sono soltanto io a pensarlo.
Sono state giornate strane: tornare al lavoro, cercare di riprendere il filo, affrontare un lungo e commovente colloquio con un Eddie molto comprensivo, ricevere le pacche imbarazzate e i «facevamo tutti il tifo per te» dei colleghi e scoprire che Frank mi aveva preparato una divertente raccolta di variazioni del controllo ortografico su alcune località scozzesi. Mi sono trasferito momentaneamente a Leith, a casa di Al e della moglie, perché la polizia tiene sotto controllo il mio appartamento. Di Andy, però, nessuna traccia.
Nel frattempo sono andato dal medico, che mi ha mandato a fare diversi esami al Royal Infirmary. Nessuno ha ancora pronunciato la parola impronunciabile, ma all’improvviso mi sono sentito vulnerabile e mortale, e persino vecchio. Ho smesso di fumare. (Be’, Al e io ci siamo fumati un po’ di roba l’altra sera, in onore dei vecchi tempi, ma non si trattava di tabacco.)
Tossisco ancora molto e, ogni tanto, mi viene la nausea; da quel pomeriggio in cui abbiamo trovato il corpo di William, però, non ho più tossito sangue.
Mentre aspetto di tornare a terra sulla piccola barca, stringo la mano a Yvonne. La sottile trama nera del velo, spruzzato di minuscoli puntini neri, la rende al contempo misteriosamente lontana e apertamente seducente, pioggia o non pioggia, stivali o non stivali.
Attraverso gli alberi, sulla terraferma, vedo e sento le macchine che fanno manovra e si allontanano sobbalzando lungo il sentiero che porta al paese e passa davanti all’albergo. La tradizione vuole che Yvonne, in quanto moglie del defunto, sia l’ultima a salire sulla barca; un po’ come il capitano che abbandona per ultimo la nave che affonda, immagino.
«Stai bene?» mi chiede, socchiudendo gli occhi.
«Sopravvivo. E tu?»
«Lo stesso», risponde. Sembra infreddolita, e più piccola. Ho una gran voglia di prenderla tra le braccia e di stringerla forte. Sento le lacrime che mi pungono gli occhi. «Ho deciso di vendere la casa», mi spiega, abbassando brevemente lo sguardo, e sbattendo le lunghe ciglia nere. «La società sta per aprire un ufficio a Francoforte. Farò parte dello staff.»
«Ah.» Annuisco, e non so cosa dire.
«Ti scriverò per comunicarti il mio indirizzo, una volta sistemata.»
«Bene. Perfetto. Okay.» Annuisco ancora. Si sente uno sciabordio dietro di me, e poi un piccolo tonfo. «Bene. Se ti capitasse di venire a Edimburgo…»
Lei scuote la testa e distoglie lo sguardo, poi mi rivolge un sorriso coraggioso e china la testa di lato. «La tua barca, Cameron.»
Me ne resto lì, continuando ad annuire come un idiota; vorrei tanto dire la cosa giusta — ci deve pur essere! — per rovesciare la situazione, per creare un lieto fine — per me, per noi —, tuttavia so che è impossibile, e rimango lì ad annuire come uno stupido, con le labbra strette tra i denti, incapace di guardarla negli occhi e consapevole che questa è la fine… Fino a quando lei non mi dà il colpo di grazia: mi porge una mano e dice, con dolcezza: «Addio, Cameron».
Annuisco e le stringo la mano; dopo un po’ riesco anche a far funzionare la bocca e a dirle: «Addio».
Stringo la sua mano per l’ultima volta, solo per un attimo.
L’albergo, che si trova all’estremità del lago, è pieno di animali imbalsamati: pesci conservati in bacheche di vetro, aquile, gatti selvatici e lontre dall’aspetto rognoso. Non conosco molte persone e mi pare che Yvonne mi eviti. Bevo un whisky, mangio qualche sandwich e me ne vado.
La pioggia continua, torrenziale; il tergicristalli va alla massima velocità, ma anche così la contrasta a malapena. L’umidità che si sprigiona dall’ombrello e dal cappotto sul sedile posteriore sta combattendo una battaglia ad armi pari con il riscaldamento e lo sbrinatore.
Ho percorso circa venti chilometri sulla strada a un’unica corsia che gira intorno alla montagna, quando il motore comincia ad avere problemi. Do un’occhiata al cruscotto: il serbatoio è mezzo pieno, nessuna spia accesa.
«Oh, no», gemo. «Su, bella, su, non mi piantare proprio adesso! Su, su.» Do qualche colpetto sul cruscotto, come per incoraggiarla. «Su, su…»
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