Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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«Eh?» biascico, confuso per l’improvviso cambio di direzione. «No, ultimamente no. È ancora in Nuova Zelanda. E tu? Sei più tornato a Strathspeld?»

Scuote la testa, e mi vengono i brividi nel ricordare questo suo gesto, ormai diventato un tic nervoso, ripetuto all’infinito, dopo il funerale di Clare, a Strathspeld, nell’89. Un gesto d’incredulità, di rifiuto, di non accettazione.

«Dovresti andarci», mi dice. «Dovresti andare a trovarli. Sarebbero contenti.»

«Vedremo», replico. Una folata di vento spinge la pioggia contro i vetri e fa tremare la finestra. Il rumore è forte e mi coglie di sorpresa. Trasalisco; Andy invece si limita a voltarsi lentamente e a guardare fuori, nell’oscurità, con quella che potrebbe essere un’espressione di disprezzo, poi ride, mi mette un braccio intorno alle spalle e suggerisce di andare a farci un altro drink.

Più tardi, sopra l’albergo scoppia un temporale; i lampi serpeggiano dietro le montagne sull’altro lato del lago e i tuoni fanno vibrare le finestre. Va via la luce: accendiamo candele e lampade a gas e in sette — il nocciolo duro del gruppo, composto da Andy, Howie, altri due ragazzi del posto, una coppia di giramondo e me — finiamo nella sala biliardo, dove c’è un tavolo dall’aria decrepita. Una perdita nel soffitto ha trasformato l’intera superficie verde, già coperta di macchie, in una palude profonda un millimetro, con l’acqua che sgocciola dalle buche, scende lungo le grosse gambe e va a inzuppare la moquette. Giochiamo a biliardo alla luce delle sibilanti lampade a gas, costretti a colpire con forza la palla bianca anche nei tiri più delicati, a causa della resistenza causata dall’acqua; le palle fanno un rumore sibilante, simile a uno strappo, mentre corrono sul tavolo, a volte sollevando piccoli spruzzi dietro di loro. Mi sento davvero ubriaco e anche un po’ fatto, colpa di due spinelli piuttosto forti fumati in giardino con gli hippy, ma questo snooker acquatico giocato nella penombra è davvero divertente e continuo a ridere come un pazzo. A un certo punto, metto un braccio intorno al collo di Andy e gli dico: «Sai una cosa? Io ti amo, vecchio mio, e quello che conta non sono l’amicizia e l’amore? Perché la gente non lo capisce e non si comporta decentemente con il prossimo? È che al mondo ci sono troppi bastardi!» Andy si limita a scuotere la testa, io cerco di baciarlo, ma lui mi allontana con delicatezza e mi rimette in equilibrio, prima appoggiandomi contro un muro, poi puntellandomi con una stecca da biliardo contro il petto. Non so perché, ma lo trovo davvero troppo divertente, rido al punto che cado a terra e ho notevoli problemi a rialzarmi. Andy e uno degli hippy devono portarmi di peso nella mia stanza. Mi mollano sul letto, e mi addormento immediatamente.

Sogno di Strathspeld, e delle lunghe estati della mia infanzia passate in una trance di oziosi piaceri, conclusasi quel giorno, con quella corsa nel bosco (ma da questo ricordo fuggo, come ho imparato a fare con il passare degli anni); vago per il bosco e per le piccole valli nascoste, lungo le rive dei laghetti ornamentali, del fiume e del lago; sono vicino alla vecchia cabina per i bagni, sotto il sole accecante e violento, con la luce che danza sull’acqua, e vedo due figure, nude, sottili e bianche nell’erba oltre il canneto; mentre le osservo, la luce dorata diventa argentea, quindi bianca, gli alberi sembrano rattrappirsi, le foglie scompaiono nel gelido scintillio di quella vampata bianca, mentre tutto, intorno a me, si fa sempre più brillante e più scuro al contempo, e riducendosi a un’immagine in bianco e nero: gli alberi sono neri e spogli, il terreno è totalmente coperto di un manto bianco e le due figure sono scomparse, mentre una, ancora più piccola — con stivali, guanti e le falde del cappotto che svolazzano — corre ridendo attraverso la distesa bianca del lago ghiacciato.

Qualcuno urla e chiede aiuto.

LUX EUROPAE

Dodici ore dopo mi ritrovo nelle fottutissime Channel Islands, soffro terribilmente per i postumi della sbronza e penso: Ma che cazzo ci faccio qui?

«Eh? Cosa?»

«Svegliati, Cameron. C’è una telefonata per te.»

«Ah. Va bene.» Cerco di mettere a fuoco Andy. Sembra proprio che non riesca ad aprire l’occhio sinistro. «È importante?»

«Non lo so.»

E così mi alzo, m’infilo la vestaglia e mi dirigo verso l’atrio freddo e polveroso dove si trova il telefono.

«Cameron, sono Frank.»

«Oh, ciao.»

«Allora, ti stai divertendo?»

«Oh, sì», dico, sempre cercando di convincere la palpebra sinistra ad aprirsi. «Qual è il problema, Frank?»

«Ha chiamato il tuo signor Archer.»

«Ah, sì?» dico con voce stanca.

«Già. Ha detto che forse ti avrebbe fatto piacere sapere…» sento Frank che sposta dei fogli «…che il vero nome del signor Jemmel è J. Azul. J è l’iniziale, il cognome è A-Z-U-L. E che Azul conosce tutta la storia, ma che sta per partire per un viaggio all’estero… Partirà oggi pomeriggio. Questo è tutto quello che ha detto. Ho cercato di chiedergli di che cosa stesse parlando, però…»

«Un minuto. Aspetta un minuto», biascico, aprendo a forza la palpebra sinistra con un dito. Mi faccio male e l’occhio comincia a lacrimare. Faccio un respiro profondo, cercando di svegliarmi. «Ripeti da capo…»

«Ha te-le-fo-na-to il si-gnor Ar-cher…» riprende Frank scandendo le parole.

Ripete tutto il messaggio. Nel frattempo, penso: Parte oggi pomeriggio… e da dove?

«Okay», dico, quando Frank ha finito di parlarmi con quel tono, neanche fossi un lettore del Sun. «Frank, potresti farmi un grosso favore e vedere se riesci a scoprire chi è ’sto Azul?»

«Be’, al momento sono piuttosto occupato, Cameron. Non tutti affrontano le scadenze con la tua leggerezza…»

«Frank, per favore. Il nome suona familiare, mi pare di averlo visto… Cristo, non riesco a ricordare, il cervello non funziona. Ti prego, Frank, fammi un controllo, per favore, vuoi? Ti sarò debitore, Frank. Per favore.»

«Va bene, va bene.»

«Grazie. Se trovi qualcosa richiamami subito, okay? Lo farai?»

«Sì, sì. Va bene.»

«Bene. Magnifico. Grazie.»

«Se ti chiamo, però, mi farebbe piacere che venissi a rispondere un po’ più in fretta di ieri.»

«Cosa?»

«Il tuo signor Archer ha chiamato ieri.»

«Ieri?» ripeto, e sento che mi si chiude lo stomaco.

«Sì. All’ora di pranzo. È stata Ruby a prendere il messaggio. Io ero fuori; non appena sono rientrato, ho cercato di chiamarti, ma non ho avuto risposta. Ho provato anche con il tuo cellulare, ma non credo che funzioni lassù tra le montagne; ho trovato soltanto la registrazione che mi chiedeva di riprovare più tardi.»

«Oh, Cristo!»

«Senti, un’altra cosa…».

Sta per uscirsene con un’altra delle sue ridicole battute sul controllo ortografico, lo so. Non ci posso credere. Nel frattempo la mia testa va a mille, o almeno ci prova. Al momento sembra che sia ancora ferma ai bordi della pista, cercando di liberare i piedi dai pantaloni della tuta, saltellando tutto intorno e inciampando, mentre la corsa ha già avuto inizio. Da un’altra parte.

«…e se fosse un nome qualsiasi?» chiede Frank. «Se metà degli abitanti di Beirut si chiamassero Azul? Voglio dire, sembra una specie di…»

«Frank, ascolta», lo blocco, colpito da un’improvvisa ispirazione. La mia voce suona molto più calma e sobria di quanto io mi senta in realtà. «Credo di ricordare dove ho visto quel nome. L’ho visto sulle ultime pagine del Private Eye. Qualcosa che ha a che fare con… non lo so… Sai, il genere di cose che finiscono in fondo a quella rivista. Potrebbe essere collegato con la difesa, l’industria aerospaziale, i servizi segreti, o il traffico d’armi. Ti prego Frank, prova con Profile. Devi soltanto battere: SEARCH: AZUL e…»

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