Stava consultando il secondo volume quando sentì i muscoli che si rilassavano e le palpebre che si abbassavano. Al terzo, nella stanza cominciò a scendere un’oscurità irreale.
Poi qualcosa filtrò nella sua stanchezza.
Parole, frasi… qualcosa di leggermente diverso.
A un tratto si drizzò a sedere più sveglio che mai.
Rilesse… meditò… Doveva chiamare Petra?
Strano, forse non era niente, tuttavia…
Non sapeva nemmeno dove trovarla. Tagliato fuori com’era, che probabilità restavano che le sue intuizioni fossero affidabili?
Avrebbe cercato di contattarla. Al peggio, avrebbe sprecato dell’altro tempo.
Sprecare tempo era comunque il suo nuovo hobby.
Lo sbirro bianco lo stava prendendo sul serio.
Era ora. Giusto quello che Zhukanov gli aveva detto quando si era avvicinato al suo baracchino poco prima che chiudesse e gli aveva mostrato il distintivo e l’identikit del bambino.
«Era ora.»
«In che senso, signore?»
«Ho parlato a uno dei vostri, ma non è tornato. Un nero.»
Il bianco lo fissò. «Sì, signore, lo so.»
«Che cosa vuole?» chiese Zhukanov.
«Ricontrollare l’identificazione, signore.» Il poliziotto appoggiò un gomito sul banco e posò il ritaglio di giornale. Tipo robusto, biondo, rubizzo, abito scuro, cravatta scura, ricordava a Zhukanov un colonnello per il quale aveva lavorato in patria in un’operazione antisommossa, un vero sadico, gli piaceva torcere gli arti, sapeva come produrre il massimo danno con la minima rotazione di un polso… Borokovsky. Quel tizio somigliava molto a Borokovsky. Era di discendenza russa? Sulla tessera c’era scritto detective D.A. Price, ma tutti si cambiavano il nome.
«Ricontrollare? Vi ho già detto che sono stato qui, nessuno si fa vivo con me e finisce in TV.»
«È un’indagine su un omicidio, signore, e dobbiamo agire con prudenza», spiegò lo sbirro biondo, allungando gli occhi alle sue spalle, dove c’erano i giocattoli sugli scaffali.
Lo chiamava continuamente signore mentre probabilmente lo considerava una mezza sega, un clown. Aveva fatto così anche il ciccione e guarda che cosa ci aveva guadagnato.
Avendo avuto alcune ore per rifletterci, Zhukanov era soddisfatto di aver ammazzato il grassone, ne era quasi orgoglioso; il lupo siberiano azzanna la sua preda, intinge il muso nel sangue, ulula alla luna. Mentre affondava il coltello nel suo corpo, Zhukanov aveva sentito l’impulso a ululare.
Trasportarlo fino alla macchina e poi tirarlo fuori era stata una tortura, gli facevano ancora male schiena, spalle e braccia. Nemmeno tagliare a pezzi quel bastardo era stato così semplice. Avrebbe dovuto affilare meglio i coltelli da cucina; quella mannaia avrebbe dovuto spaccare le articolazioni come burro, non rimanere incastrata.
La testa però gli aveva creato meno problemi di quanto avesse temuto. Era rotolata via come un pallone, con gii occhi aperti. Buffo. Gli era venuta voglia di tirare qualche calcio, ma doveva far scomparire testa e dita e lasciare agli sbirri solo la carcassa. Il suo intento era di lasciare la testa dove nessuno potesse ritrovarla, ma i boy-scout avevano rovinato tutto, in giro per il bosco a gridare come ubriachi. Così adesso gli sbirri avevano recuperato la testa, forse avrebbero scoperto chi era il ciccione. E allora? Impossibile collegarlo a lui, aveva lavato via tutto il sangue. Infatti ecco qui un altro sbirro che si appoggia sullo stesso banco come se nulla fosse.
Si sforzò di non sorridere. Si era sbarazzato dei coltelli in cinque diversi scarichi tra Valencia e Van Nuys. I vestiti e il portafogli del grassone erano finiti in un cassonetto vicino all’angolo di Fairfax con Melrose. Che la polizia andasse a tampinare gli ebrei.
Niente soldi nel portafogli, solo una patente di guida e una bella foto di una ragazza nuda con le gambe spalancate, che Zhukanov si era intascato. La targa era finita in un altro tombino. Il nome del ciccione era Moran. Capirai.
Arrivato a casa aveva lavato gli indumenti insanguinati, aveva fatto la doccia, aveva mangiato qualcosa e aveva armeggiato un po’ con la pistola inceppata, senza ancora riuscire a capire dove fosse il guasto. Poi qualche bicchiere di vodka e alle tre usciva di casa come nuovo. Cinque ore dopo era al suo baracchino ad attendere che gli ebrei tornassero con il ragazzo. Se non li avesse visti tornare, lunedì sarebbe andato alla Motorizzazione.
Ma la macchina era arrivata come doveva e alle nove di sera si era fermata dietro la chiesa ebraica. Tempo di preghiera per i giudei, Zhukanov lo sapeva, durava di solito fin verso le undici. Aveva continuato a tornare al vicolo ogni quindici minuti e finalmente aveva visto uscire il vecchio che teneva nascosto il bambino. Lo accompagnava una vecchia. Erano ripartiti e lui li aveva seguiti sulla sua macchina. Non si erano accorti di niente, troppo presi a fare andare la lingua.
E ora aveva un indirizzo senza aver sborsato un centesimo. Sunrise Court 23.
Non lo aveva scritto come aveva fatto con la targa, perché si era fatto furbo. Nessuno lo avrebbe avuto se prima non lo pagavano.
E ora guarda con quanta calma serafica osserva lo sbirro bianco. Sebbene, se gli avesse mostrato il distintivo e non la faccia del bambino, magari avrebbe pensato che era lì per Moran, e Dio solo sa che cosa avrebbe fatto lui.
«Lo dico al nero», ribadì. «E lui non si fa più vivo.»
«Mi rincresce, signore, siamo stati molto occupati…»
«Voi occupati a cercare il bambino», lo interruppe Zhukanov, «quando io lo vedo.»
«Lei lo ha visto qualche giorno fa, signore.»
«Forse», rispose Zhukanov e sorrise.
«Forse?»
«Forse lo vedo di nuovo.»
Lo sbirro biondo estrae un piccolo taccuino. «Dove, signore?»
«Lo dico al suo socio nero la prima volta. Lui non si fa più vivo.»
Il poliziotto biondo sollevò le sopracciglia, si sporse un po’ più in avanti. «Signore, se ha delle informazioni…»
«Io non so», disse Zhukanov stringendosi nelle spalle. «Forse io dimentico. Come quello nero dimentica di me.»
Il taccuino si richiuse. Lo sbirro era irritato, ma sorrise. «Signore, capisco la sua delusione. Certe volte ci sono delle emergenze che si accavallano e non abbiamo il tempo di mettere tutti i puntini sulle i. Se lei ha dovuto subire le conseguenze di una di queste eventualità, mi permetta…»
«Mettere i puntini sulle i è importante», dichiarò Zhukanov, non molto sicuro di che cosa volesse dire. «Ma anche i soldi.»
«Soldi?»
«Venticinquemila.»
«Ah, quelli», annuì lo sbirro. «Certo. Se troviamo il bambino e lui ci aiuta, i soldi sono suoi. Almeno così mi è stato detto.»
«Nessuno dice a me.»
«Ho visto l’atto ufficiale, signore. Lo ha firmato il mio capitano. Se vuole chiamarlo…»
«No, no», si affrettò a rispondere Zhukanov. «Io voglio solo le cose chiare, capisce? Forse so qualcosa di più di quello che ho detto al nero, ma se il piccolo scappa e voi non lo trovate? Che succede?»
«Se le sue informazioni sono fondate, otterrà un pagamento parziale», lo rassicurò lo sbirro. «Parte dei venticinquemila dollari. Facciamo sempre così. Non dico che in questo caso potrebbe incassare tutta la somma, ma…»
«Quanta parte?»
«Non so, signore, ma di solito in queste situazioni si va da un terzo a metà della taglia. Diciamo dicci, dodicimila. E se il ragazzo c’è, incasserà tutti i venticinquemila. Perché non parla al mio capitano?»
«No, no», insisté Zhukanov pensando che se il vecchio ebreo aveva portato il bambino a casa sua, c’era ancora il rischio che il marmocchio scappasse. Meglio non indugiare oltre. «Lo voglio scritto.»
«Scritto che cosa?»
«Quello che dice. Dodici, quindicimila a Zhukanov per aver detto, tutti i venticinque se il bambino c’è.»
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