Fredric Brown - Il bicchiere della staffa

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Il bicchiere della staffa: краткое содержание, описание и аннотация

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Poi Hetherton si mise a sedere alla sua scrivania e mi indicò una poltrona. Disse: «Ecco l’azienda, signor Spitzer. Piccola, certo. Ma questo, nelle vostre circostanze, è un vantaggio. Imparerete più presto qui perchè il lavoro sarà più vario. Mi spiace di potervi offrire soltanto trentacinque dollari, ma, naturalmente, non penso nemmeno che vi fermerete per sempre a questo stipendio. Comunque, si tratta di uno stipendio equo per chi vuole imparare il mestiere, e il vostro annuncio diceva che sareste disposto a fermarvi con me per un periodo di tempo ragionevole. Che ve ne pare di due anni?»

«Due anni?» Temo che la mia voce non avesse un accento troppo convinto. Se mi avesse chiesto che cosa intendevo per un «ragionevole periodo di tempo», avrei risposto sei mesi. «Volete dire due anni senza un aumento?»

«Precisamente questo intendo dire.»

Mi alzai. «Signor Hetherton, non era a questo che pensavo quando ho compilato il testo della mia inserzione. A questo stipendio, posso impegnarmi a restare, come massimo, per un anno. Capisco ora che, invece di telegrafarvi, avrei dovuto telefonarvi e discutere con voi questo punto.»

«Forse avreste dovuto farlo,» convenne, conciliante. «A me due anni sembrano ragionevoli, date le circostanze. Non siete obbligato ad accettare, naturalmente, e a me in fondo la cosa non interessa più di tanto. C’è un ragazzo che si diplomerà fra poche settimane e che sarebbe ben contento di assicurarsi il posto a uno stipendio anche inferiore. Il posto è ancora vostro, se lo volete, ma prima dovete promettermi formalmente che vi fermerete per due anni. E dovete anche promettermi che farete del vostro meglio. La vostra promessa di rimanere qui non avrebbe significato se non mi promettete anche di non costringermi a licenziarvi per… come dire… ostruzionismo, incapacità deliberata sul lavoro.»

Mi aveva battuto sul tempo; stavo pensando che proprio quello avrei potuto fare se, di lì a sei mesi o a un anno, mi fossi sentito in grado di andarmene per accettare una offerta migliore e più remunerativa. Ma ormai anche questa via d’uscita mi veniva chiusa.

Abbassai le palpebre per riflettere un momento. Non era neppure il caso di pensare di tornare a Kansas City. Forse avrei potuto continuare, fino a esaurimento del mio capitale, interrogando i direttori di tutte le cittadine che attraversavo e sperando in un colpo di fortuna, ma ricordavo quante poche risposte aveva ricevuto la mia inserzione sull’ E. and P.

Chiesi: «Quanto tempo ho per prendere una decisione? Devo rispondere subito sì o no?»

Prese dal taschino un orologio e lo guardò. «Gradirei sapere qualcosa per l’ora della chiusura, le cinque. Adesso sono le due e mezzo. Vi basta?»

«D’accordo. Per le cinque vi darò una risposta.»

Uscii in un tiepido sole pomeridiano. Mayville in maggio. È forse il mese più bello dell’anno nell’Arizona del Sud. La stagione turistica è già finita, è vero, ma in genere i turisti capitano qui per evitare il freddo e la neve nei loro Stati, e maggio è un mese bellissimo quasi dappertutto.

Mi tolsi la giacca e la buttai nella macchina, ma lasciai la macchina dov’era e mi misi a camminare. Feci il giro della città, che mi piacque malgrado il mio disappunto e la mia indecisione. Mi sembrava che Mayville fosse simpatica, onesta. Niente di pittoresco, salvo che nel quartiere di Mextown, e là il pittoresco non era voluto: i messicani costruivano a quel modo e vivevano a quel modo perchè così erano sempre stati abituati a fare. E poi, Mextown è fuori dalla statale; i turisti che fanno una breve tappa in genere non la notano nemmeno. Ma io ci capitai per caso, e mi piacque.

Mi fermai in una cantina e ordinai una tequila, poi, accorgendomi che c’erano solo altri due clienti nel locale, aggiunsi por la casa. Il che, secondo i miei vaghi ricordi scolastici di spagnolo, è la traduzione letterale di «per la casa». Probabilmente l’equivalente spagnolo è diverso, ma il barista afferrò l’idea. E mi diede il resto del dollaro che avevo lasciato cadere sul banco. Naturalmente, risultò che tanto i due clienti quanto il proprietario parlavano inglese, e non potei cavarmela fino a quando ognuno di loro non mi ebbe ricambiato la cortesia.

Quattro tequila mi avevano messo in uno stato d’animo propizio, e Mayville mi sembrava ora ancora più bella. Tornai indietro e mi ritrovai sul corso, a mezzo isolato dagli uffici del giornale. Erano le quattro e non avevo ancora preso decisione alcuna.

Mi trovavo di fronte a un bar che recava l’insegna: BAR SINISTRO. Non cercai neppure di resistere. Volevo conoscere chi aveva avuto il fegato di dare un nome del genere al proprio locale. Entrai.

Fu così che conobbi Cass Phillips. Per caso non c’erano altri clienti, e Cass ed io cominciammo a parlare; pochi minuti più tardi ci chiamavamo già per nome. A Cass piaceva parlare; chiacchierammo del più e del meno, ma non gli confidai il mio problema e non gli piansi sulla spalla, come sentivo la tentazione di fare.

Era grande e grosso, Cass. Un metro e novanta circa, due spalle gigantesche, un petto che sembrava un armadio. Fitti capelli grigi che forse erano incanutiti prematuramente, perchè per il resto non gli si davano certo più di quarant’anni. E, come venni a sapere poi, era sorprendentemente cosmopolita e intelligente per essere il proprietario di un bar — sia pure un bar sinistro - in una cittadina come Mayville. Aveva fatto il cameriere-cantante a Chicago, aveva fatto il croupier a Las Vegas, era stato… bene, non ricordo più tutte le sue svariate professioni.

Mentre chiacchieravamo — in quel momento ero io a parlare, ma non rammento che cosa stavo dicendo — ci capitò di guardare tutti e due contemporaneamente fuori dalla vetrina mentre passava una ragazza. Forse non era la più bella ragazza del mondo, ma certo non scherzava. Camminava con l’eleganza di una indossatrice, ma senza la prosopopea di una indossatrice. I capelli nerissimi, pettinati alla paggio, le ricadevano sulle spalle e ondeggiavano a ogni passo. Accidenti, non sono capace di descriverla, non sono mai stato capace di descrivere le donne, sia pure le più comuni.

Notando con la coda dell’occhio che anche Cass l’aveva vista, chiesi: «Chi è quella?»

«Doris Jones. Lavora al centralino telefonico.» Sorrise. «No, non è sposata. E nemmeno fidanzata, che io sappia.»

«Ci sono molti tipi del genere qui da voi?»

«Quante ne volete?» mi chiese.

Non risposi. Diedi invece un’occhiata all’orologio e vidi che erano le quattro e mezzo. Avevo fatto durare un bicchiere mezz’ora e mi restava il tempo per un secondo. Dissi: «Un bis, Cass. Un altro bicchiere, voglio dire, non…» e indicai con un cenno del capo la vetrina. E, dato che ormai eravamo diventati quasi amici, aggiunsi: «E uno anche per voi.»

«Grazie, adesso no,» replicò. Poi, per scusarsi: «Di norma bevo qualcosa quando è quasi l’ora di chiusura, ma mai così presto.» Prima che prendessi il bicchiere, pescò di tasca un nichelino e me lo fece scivolare attraverso il banco. «Mettetelo nel juke box. Numero dodici, magari, a meno che non ci sia qualcosa che preferite.»

Odio i juke box, ma non potevo mostrarmi scortese, dato soprattutto che il nichel era suo. Mi lasciai scivolare giù dallo sgabello e andai accanto al grammofono automatico. Il numero dodici era «Torna a Sorrento», il che era già qualcosa, perchè non si trattava almeno di un rock and roll o di una canzone della prateria. Infilai la moneta e premetti il pulsante. Mentre il meccanismo entrava in azione, guardai gli altri titoli. E rimasi sorpreso, quasi sbalordito. Era tutta roba buona, classici o semiclassici della musica leggera. Alcuni erano notissimi, come Night and Day e Stardust. In genere, erano per sola orchestra, come Torna a Sorrento.

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