«Ehi, che velocità!» l’accolse Walt nel vederla arrivare da lui a tempo di record. «Non sapevo che avessi una macchina sportiva!»
«Sei tu che hai stimolato la mia curiosità», rispose lei. «E poi ho pochissimo tempo a disposizione.»
«Non ci vorrà molto.» Walt la portò davanti a un microscopio, dicendole: «Guarda qui dentro».
Angela osservò un campione di pelle e poi alcune chiazze nere nel derma.
«Sai che cos’è?» le chiese Walt.
«Penso che sia la pelle trovata sotto le unghie di Hodges.»
«Esatto. Lo vedi il carbone?»
«Sì.»
«Bene. Ora da’ un’occhiata qui», la invitò Walt, porgendole una foto. «È una microfotografia che ho ottenuto con un microscopio elettronico a scansione. Come potrai notare, le macchie non appaiono più come carbone».
Angela la osservò bene e vide che Walt aveva ragione.
«Adesso guarda qui», proseguì lui, «questa è l’immagine fornitaci da uno spettrofotometro atomico. Avevo diluito le particelle con un solvente acido e poi le ho analizzate. Non erano carbone.»
«Che cos’erano?»
«Una mistura di cromo, cobalto, cadmio e mercurio», annunciò Walt, trionfante.
«Meraviglioso», mormorò Angela, sconcertata, «ma che cosa significa?»
«Anch’io ero perplesso quanto te», ammise Walt, «e non avevo idea di che cosa significasse. Pensavo persino che lo spettrofotometro fosse guasto. Ma poi ho avuto la rivelazione: fa parte di un tatuaggio!»
«Ne sei sicuro?»
«Assolutamente. Quei pigmenti sono utilizzati per fare tatuaggi.»
Angela condivise immediatamente l’eccitazione di Walt. Con le possibilità offerte dalla medicina legale avevano fatto una scoperta che riguardava l’assassino. Aveva un tatuaggio. Non vedeva l’ora di dirlo a David e a Calhoun.
Tornata in ospedale, Angela s’imbatté in Paul Darnell, che la stava aspettando.
«Ho brutte notizie», le annunciò. «Wadley sa che sei uscita di città e non ne è contento.»
«Come fa a saperlo?» esclamò lei. Lo aveva detto soltanto a Paul.
«Credo che ti spii, è l’unica spiegazione a cui so pensare. È venuto da me un quarto d’ora dopo che eri uscita.»
«Credevo che fosse andato a mangiare.»
«È ciò che ha detto a tutti, ma evidentemente non l’ha fatto. Mi ha chiesto subito se avevi lasciato Bartlet. Non potevo mentirgli, gliel’ho dovuto dire.»
«Gli hai detto che sono andata dal medico legale?»
«Sì.»
«Allora non dovrebbero esserci problemi. Grazie per avermi avvertita.»
Appena Angela mise piede nella sua stanza, una segretaria l’avvisò che il dottor Wadley le voleva parlare. Quella era la prima volta che ricorreva a un’intermediaria per convocarla da lui. Brutto segno, si disse Angela.
Quando si presentò nella stanza di Wadley, lui le rivolse uno sguardo glaciale.
«L’ho chiamata per comunicarle che è licenziata», le annunciò senza perdere tempo in preliminari. «La pregherei di prendere le sue cose e andarsene al più presto. La sua presenza qui non è più gradita.»
«Non riesco a crederci», disse Angela.
«Tuttavia è così.»
«Dovrebbe sapere che ho utilizzato l’ora di pausa per recarmi a Burlington dal medico legale», ribatté lei. «Mi ha telefonato chiedendomi di andare da lui il prima possibile.»
«Non è il dottor Walter Dunsmore il primario di questo reparto. Sono io.»
«Non le ha telefonato?» Angela era disperata. «Mi ha detto che lo avrebbe fatto. Era eccitato per una scoperta fatta a proposito del cadavere trovato nella mia cantina. Sono corsa subito là… Sono stata via poco più di un’ora.»
«Non m’interessano le sue scuse. Soltanto ieri l’avevo avvertita, ma lei non mi ha dato retta, ha dimostrato di essere inaffidabile, disobbediente e ingrata.»
«Ingrata!» esplose Angela. «Ingrata per che cosa? Per le sue viscide avance? Per non volermi dare alla pazza gioia con lei a Miami? Mi può licenziare, dottor Wadley, ma io le dico che cosa farò: denuncerò lei e l’ospedale per molestie sessuali.»
«Ci provi, signora. La butteranno fuori a risate dal tribunale.»
Angela sfrecciò via, fuori di sé dalla rabbia. Raccolse le sue poche cose e le ficcò in una borsa di tela della spesa, poi uscì senza parlare con nessuno, per paura di perdere il controllo: non voleva dare a Wadley la soddisfazione di vederla piangere.
Voleva andare direttamente da David, in ambulatorio, ma poi cambiò idea. Dopo la discussione avuta con lui, temeva che reagisse male alla notizia del suo licenziamento e non voleva dare spettacolo in ospedale. Così salì in macchina e si diresse verso la città, senza una meta precisa.
Mentre passava davanti alla biblioteca, riconobbe l’inconfondibile furgone di Calhoun fermo lì davanti, allora parcheggiò la macchina ed entrò. Lo trovò che leggeva tranquillo e lo chiamò sottovoce.
«Capita a proposito!» la accolse con un sorriso. «Ho alcune novità.»
«Anch’io, purtroppo. Che cosa ne dice se andiamo a casa mia?»
Giunta a casa, Angela mise subito l’acqua a bollire e, quando Calhoun bussò alla porta, aveva già messo sul tavolo tazze e piattini.
«Tè o caffè?» gli chiese.
«Quello che prende lei», rispose Calhoun, poi aggiunse: «Ha staccato presto, oggi!»
Dopo avere tenuto a freno le sue emozioni dal momento in cui era uscita di corsa dallo studio di Wadley, Angela reagì a quell’innocente commento con un fiume di lacrime.
Il detective rimase a guardarla, perplesso, senza capire che cosa le avesse detto o fatto di male. Aspettò che il pianto dirotto si trasformasse in singhiozzi intermittenti per scusarsi: «Mi spiace, non so che cosa ho fatto, ma mi spiace».
Angela gli si avvicinò, mise le braccia intorno alla sua notevole mole e gli appoggiò la testa sulla spalla. Lui l’abbracciò paternamente e, quando vide che aveva smesso di piangere, le consigliò di raccontargli che cosa le era accaduto.
«Credo che berrò del vino, invece del tè», decise lei.
«E io prenderò una birra.»
Si sedettero in cucina e Angela disse a Calhoun di essere stata licenziata, spiegandogli quali conseguenze catastrofiche ciò avrebbe avuto sulla sua famiglia.
Lui si rivelò un ottimo ascoltatore e seppe parlarle con pacatezza, facendola sentire meglio. Parlarono persino delle preoccupazioni che destava la salute di Nikki.
Poi Calhoun rivelò ad Angela di avere fatto qualche progresso nelle indagini. «Ma forse ora non le interessa più», osservò.
«No, no, m’interessa. Mi dica.»
«Intanto, ho scoperto che gli otto pazienti di cui Hodges portava in giro i fogli di accettazione avevano qualcosa in comune. Erano tutti suoi pazienti, passati in seguito al CMV e morti nei mesi precedenti la sua scomparsa. A quanto pare, Hodges era rimasto stupito della morte di ognuno di loro. Per questo era così furibondo.»
«Dava la colpa all’ospedale o al CMV?»
«Buona domanda. Da quanto ho saputo dalla sua segretaria, a tutti e due, ma ce l’aveva soprattutto con l’ospedale. Questo ha una sua logica, perché continuava a considerarlo come una sua creatura. Quindi rimaneva deluso quando ne scorgeva i difetti.»
«Questo ci aiuta a scoprire chi l’ha ucciso?»
«Probabilmente no, ma è un altro pezzo del mosaico. E ce n’è ancora un altro: Hodges pensava di conoscere l’identità dello stupratore del parcheggio, anzi, lo riteneva collegato all’ospedale.»
«Se lo stupratore sapeva che Hodges lo sospettava, allora potrebbe essere stato lui ad averlo ucciso», concluse Angela. «In altre parole: lo stupratore e l’assassino di Hodges potrebbero essere la stessa persona.»
«Esatto, la stessa persona che ha cercato di uccidere lei l’altra notte.»
Angela rabbrividì. «Non me lo faccia ricordare!» Poi aggiunse: «Ma adesso tocca a me rivelarle una novità: l’assassino ha un tatuaggio»
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