«Che cosa le fa pensare che il caso Hodges sia diverso?» gli domandò David. «Non potrebbe accadere la stessa cosa, a Bartlet?»
«No. Allora l’uomo assassinato era un ladro e un assassino. Con Hodges è diverso. C’erano sì tantissime persone che lo odiavano, ma ce ne sono anche molte che lo ritengono un eroe cittadino. Diavolo, questo è l’unico policlinico in tutto il New England, se si escludono quelli delle grandi città, e Hodges ha avuto il merito personale di averlo fatto costruire e prosperare. Molte persone si guadagnano da vivere grazie a ciò che Hodges ha creato. Non preoccupatevi, questo caso verrà risolto. Non ne dubito.»
«Come farà a procurarsi le copie di quei documenti?» gli chiese Angela.
«Dovrà farlo lei.»
«Io?»
David già scalpitava. «Non fa parte dell’accordo», obiettò. «Lei deve starsene fuori da questa indagine. Non voglio che parli con nessuno, non dopo quel mattone che è entrato dalla nostra finestra!»
«Non ci sarà alcun pericolo», lo rassicurò Calhoun.
«Perché io?» volle sapere la diretta interessata.
«Perché lei è medico e dipendente dell’ospedale. Se fa la sua apparizione a Burlington, alla sezione della polizia scientifica, con l’appropriato documento d’identificazione e dice che le copie di quei referti le sono necessarie per la cura dei pazienti, gliele faranno in un battibaleno. Le richieste dei giudici e dei medici vengono sempre accontentate. Come le ho detto, ho lavorato lì per un periodo.»
«Penso che fare una visita al quartier generale della polizia non sia pericoloso», osservò Angela. «Non è come andare in giro a fare indagini.»
«D’accordo», acconsentì David. «Purché non ci siano possibilità di avere grane con la polizia.»
«Nessuna possibilità», lo rassicurò Calhoun. «La cosa peggiore che può accadere è che non le diano le copie.»
«Quando ci devo andare?» chiese Angela.
«Che ne dice di domani?»
«Ci dovrò andare durante la pausa del pranzo.»
«Verrò a prenderla io a mezzogiorno in punto, al parcheggio dell’ospedale.»
Angela accompagnò Calhoun al camioncino, mentre David rientrava in casa.
«Spero di non creare problemi fra lei e suo marito», le disse l’investigatore. «Non mi è sembrato per niente contento delle mie indagini.»
«Non c’è problema, se staremo ai patti», lo rassicurò lei.
«Una settimana dovrebbe essere più che sufficiente.»
Angela riferì a Calhoun la propria teoria sull’aggressione subita e lui ne fu colpito. «Uhm! La faccenda si sta facendo più interessante del previsto», commentò. «Farà meglio a stare davvero attenta e a lasciar fare a me.»
«Certo.»
«Io mi sono ben guardato dal fare sapere chi mi ha ingaggiato.»
«La ringrazio della discrezione.»
«Magari domani troviamoci al parcheggio della biblioteca, anziché a quello dell’ospedale», propose Calhoun. «Non ha senso correre rischi.»
Mercoledì 27 ottobre
Nikki si svegliò congestionata e con una tosse profonda e catarrosa e i suoi genitori si preoccuparono che fosse affetta dalla stessa malattia che aveva colpito Caroline.
Nonostante gli esercizi respiratori, la bimba non migliorò e, con suo grande disappunto, dovette rimanere a casa, in compagnia di Alice che fu disponibile a passare tutta la giornata in casa Wilson.
David era già teso per le condizioni di salute della figlia e, quando arrivò all’ospedale, il suo nervosismo raggiunse il massimo perché temeva brutte sorprese. I suoi pazienti ricoverati, però, stavano tutti bene, compresa Sandra, il cui gonfiore era sparito quasi del tutto e la cui temperatura era scesa sotto i trentasette gradi.
«Grazie per quello che ha fatto, dottore», disse contenta a David. «Non insisterò nemmeno per essere dimessa subito.»
«E fa bene: dovremo tenerla qui finché non saremo sicuri al cento per cento che l’infezione è sotto controllo.»
«Se devo restare, però, potrebbe farmi un piacere?»
«Certo.»
«I comandi del mio letto non funzionano. L’ho detto alle infermiere e loro mi hanno risposto che non ci possono fare niente.»
«Ci penserò io», promise David. «È un problema cronico, qua dentro. Vado subito a vedere che cosa si può fare. Voglio che stia comoda il più possibile.»
Alle sue lamentele, Janet Colburn gli disse che aveva riferito del guasto al capo dell’ufficio tecnico, ma le era stato risposto che non si poteva fare niente. «Non mi sono messa a discutere con lui, è già difficile anche soltanto parlarci, e poi, francamente, non abbiamo un altro letto a disposizione, al momento.»
A David sembrò assurdo doversi rivolgere nuovamente a Van Slyke per un semplice letto da riparare, ma se l’alternativa doveva essere quella di andare direttamente da Helen Beaton, preferiva tentare con lui.
«A una mia paziente è stato detto che non si può riparare il suo letto», disse entrando subito in argomento, dopo avere bussato alla porta del suo ufficio. «Che cos’è questa storia?»
«L’ospedale ha acquistato dei letti sbagliati», gli rispose Van Slyke. «Sono un incubo, per noi dell’ufficio tecnico.»
«Non si può ripararlo?»
«Si può ripararlo, ma si romperà ancora.»
«Voglio che lo ripariate, allora.»
«Lo faremo quando ne avremo tempo, non mi scocci. Ho cose più importanti da fare.»
«Perché è così maleducato?» sbottò David.
«Senti chi parla! È lei che è entrato qua dentro gridando. Se ha un problema, vada in amministrazione.»
«Lo farò.» David girò sui tacchi e salì le scale per andare subito da Helen Beaton, ma, arrivato all’ingresso, vide il dottor Pilsner che stava entrando in ospedale e lo chiamò.
«Posso parlarle un momento?» gli chiese.
L’altro si fermò e lui lo mise al corrente delle condizioni di salute di Nikki, chiedendogli se pensava che una terapia antibiotica per via orale potesse servire. Si accorse però che non lo stava ascoltando e appariva molto agitato.
«C’è qualcosa che non va?» gli domandò.
«Mi spiace, sono distratto. Caroline Helmsford durante la notte ha avuto un peggioramento e sono rimasto qui di continuo. Ho fatto soltanto un salto a casa per farmi una doccia e cambiarmi.»
«Che cosa le è successo?»
«Venga e vedrà lei stesso. L’abbiamo portata all’unità di terapia intensiva, perché le è venuto un attacco epilettico.»
Nel sentire questo, David si fermò, sbalordito: gli ricordava troppo quello che era accaduto ai suoi pazienti. Si mise quasi a correre per stare al passo con Pilsner, che intanto gli diede altri dettagli.
«Poi si è sviluppata rapidamente la polmonite. Le ho tentate tutte, ma non sembra che sia servito a qualcosa.»
Quando arrivarono alla porta dell’unità di terapia intensiva, Pilsner vi si appoggiò contro e sospirò. «Temo di trovarla in choc settico. Dobbiamo mantenere la pressione del sangue, non va bene niente. Temo di perderla.»
Caroline era in coma. Dalla bocca le usciva un tubo collegato al respiratore e sul suo corpo si intrecciavano cavi e tubicini della flebo. I monitor registravano il polso e la pressione sanguigna. David rabbrividì nel guardarla; con gli occhi della mente immaginò Nikki al posto suo e rimase terrorizzato.
Pilsner uscì con lui dalla stanza e gli parlò delle condizioni di Nikki, dicendosi d’accordo per una terapia antibiotica orale. Nel salutarlo, David cercò di dirgli qualche parola incoraggiante, perché sapeva benissimo come si sentiva.
Prima di scendere in ambulatorio, telefonò a casa per dire ad Angela degli antibiotici e la informò anche delle condizioni di Caroline, lasciandola sbalordita.
«Credi che morirà?» gli chiese lei.
«Il dottor Pilsner pensa di sì.»
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