Robin Cook - Vite in pericolo

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Un’agghiacciante incursione nel lato più oscuro dell’assistenza sanitaria, nel fatidico incrocio tra il valore supremo dell’esistenza umana e i cinici interessi del mondo finanziario, capace di subordinare la vita e la morte alla pericolosa seduzione del denaro. Dopo lunghi anni trascorsi nei corridoi di un grande ospedale di Boston, Angela e David Wilson, un’affiatata coppia di medici, decidono di abbandonare la frenesia della metropoli per trasferirsi, con la figlioletta Nikki gracile e malata, in campagna, in una tranquilla cittadina del Vermont. La bellezza e la serenità del luogo, insieme all’affettuosa accoglienza dei suoi abitanti, appaiono un sogno divenuto realtà, destinato a infondere un’ondata di entusiasmo alle loro esistenze: verdi distese di prati, laghi cristallini incastonati in una cornice incantevole di montagne, al posto dell’inquinamento e della criminalità della città. E, nello stesso tempo, si profila per entrambi i coniugi la possibilità di lavorare in un centro gestito in modo dinamico e moderno, dotato di attrezzature all’avanguardia. Ma dopo il primo magnifico, romantico autunno, a Bartlet comincia a profilarsi un paesaggio spoglio e desolato, che rivela, dietro i tristi scheletri degli alberi, oscure e macabre macchinazioni...
A poco a poco, poi a un ritmo sempre più rapido, il paradiso terrestre dei Wilson si sgretola: numerosi pazienti con strani sintomi cominciano a morire misteriosamente, inquietanti trame si nascondono nelle stanze del loro ospedale; un incubo mortale li minaccia... Coinvolti in un sistema medico criminale, nel quale la polizia non intende indagare, Angela e David dovranno combattere con le loro sole forze per non essere travolti dall’orrore e salvaguardare così la felicità della loro famiglia.

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Lei annuì e proseguì il suo lavoro.

5

Sabato 22 maggio

David aveva messo la sveglia alle sei meno un quarto come se fosse un normale giorno lavorativo. Andò in ospedale dove, prima delle nove, aveva già finito il suo giro di visite e poi tornò a casa.

«Allora, ragazze», esordì entrando, «non ho intenzione di passare la giornata ad aspettarvi.»

«Ma siamo noi che abbiamo aspettato te!» esclamò Nikki, comparendo sulla porta della sua cameretta.

«Scherzavo», rise David, dandole un affettuoso buffetto sulla guancia.

Furono ben presto in viaggio e uscirono dall’agglomerato urbano attraversando i sobborghi, più ricchi di verde, per penetrare nei boschi che diventavano sempre più belli a mano a mano che si allontanavano verso nord.

Quando raggiunsero Bartlet, David rallentò e tutti e tre si guardarono intorno come turisti desiderosi di non voler perdere nulla del panorama. «È ancora più pittoresco di come me lo ricordavo», commentò Angela.

«C’è lo stesso cucciolo!» esclamò Nikki, puntando il dito verso l’altro lato della strada. «Possiamo fermarci?»

David trovò subito un posto per parcheggiare. «Hai ragione», disse alla figlia, «riconosco la signora.»

«Io riconosco il cane», disse Nikki scendendo dall’auto.

«Un momento», la fermò Angela, prendendola per mano per farle attraversare la strada. La signora accolse la bimba con un cordiale saluto, mentre il cucciolo le si lanciò addosso e le leccò il viso. Nikki rise contenta.

«Non so se vi possa interessare», disse la signora, «ma il cane del signor Staley, un cane da caccia come questo, ha avuto i cuccioli poche settimane fa. Li tiene nel negozio di ferramenta, proprio lì di fronte.»

«Possiamo andarli a vedere?» implorò Nikki.

«Ma sì», disse David e ringraziò la donna.

Riattraversarono la strada ed entrarono nel negozio, dove Nikki individuò subito la cuccia di Molly, il cane del signor Staley, che stava allattando cinque cuccioli.

«Che meraviglia!» esclamò. «Li posso accarezzare?»

«Non lo so», disse David, ma in quel momento si avvicinò il signor Staley in persona che si presentò e lo rassicurò.

«Certo che li può accarezzare. Li ho messi lì sperando di venderli. Che me ne faccio di altri sei cani da caccia?»

Nikki si mise in ginocchio e ne toccò delicatamente uno, che reagì mettendosi a succhiarle il dito, cosa che la fece impazzire di gioia.

«Prendilo pure in braccio», la invitò il proprietario.

Nikki lo cullò fra le braccia e il cucciolo le leccò il naso. «Lo adoro», disse. «Vorrei tanto poterlo tenere. Possiamo? Mi prenderò cura di lui.»

David si ritrovò improvvisamente a dover reprimere le lacrime. Guardò Angela, che si stava strofinando gli occhi con un fazzolettino: i loro sguardi si incrociarono e non furono necessarie le parole per capirsi. La richiesta di Nikki li aveva commossi ancora più della prima volta.

«Pensi anche tu quello che penso io?» domandò David alla moglie.

«Credo di sì», rispose lei, mentre le lacrime cedevano al sorriso. «Vorrebbe dire che ci potremmo comprare una casa.»

«Addio, criminalità e inquinamento!» esclamò David, poi riabbassò lo sguardo sulla figlia e le disse: «Va bene, puoi tenere il cane, ci trasferiremo a Bartlet».

Il viso della bimba si illuminò.

Dopo aver stabilito il prezzo, il signor Staley li informò che i cuccioli avrebbero potuto essere svezzati entro un mese circa.

«Perfetto», disse David. «Ci trasferiremo qui a fine mese.»

A malincuore, Nikki rimise giù il cucciolo e seguì i genitori fuori dal negozio, mentre sua madre chiedeva, tutta eccitata: «E adesso che cosa facciamo?»

«Festeggiamo», propose David. «Mangiamo in trattoria.»

Qualche minuto dopo, erano seduti a un tavolo con vista sul fiume e facevano tintinnare i bicchieri colmi di vino bianco, quelli di Angela e David, e di succo al mirtillo, quello di Nikki.

«Voglio brindare al nostro arrivo nel paradiso terrestre», propose David.

«E io all’estinzione dei nostri debiti», disse Angela.

«Ma sentila!»

«Da non crederci», osservò Angela, «i nostri stipendi uniti insieme fanno più di centoventimila dollari.»

David canticchiò: «Soldi, soldi soldi…»

«Credo che il cane lo chiamerò Rusty», annunciò Nikki.

«Un bellissimo nome», approvò David.

«Che effetto di fa sapere che io guadagnerò il doppio di te?» lo stuzzicò Angela e lui, che se l’aspettava, fu pronto a ribattere.

«Tu guadagnerai i tuoi soldi in un laboratorio buio e tetro, mentre io vedrò simpatiche persone in carne e ossa.»

«Insomma, il tuo orgoglio maschile non ne soffrirà?» insistette lei.

«Nemmeno un po’ e poi è bello sapere che in caso di divorzio sarai tu a dovermi passare gli alimenti.»

Angela sì chinò sulla tavola per sferrargli un pugno scherzoso sul petto, che David parò, prima di aggiungere: «Inoltre, questa differenza non durerà a lungo. È un rimasuglio di un’epoca passata. Patologi, chirurghi e altri specialisti strapagati saranno riportati sulla Terra come i comuni mortali».

«Chi lo dice?»

«Lo dico io.»

Dopo avere pranzato, si recarono immediatamente all’ospedale, per comunicare a Caldwell la loro decisione.

«Fantastico!» esclamò lui. «Il CMV lo sa già?»

«Non ancora», rispose David.

«Venite, andiamo a dare loro la buona notizia.»

Anche Charles Kelley ne fu contentissimo e chiese subito a David quando pensava di cominciare a lavorare.

«Quasi subito, il 1° luglio.»

«Non vuole un po’ di tempo per sistemarsi?»

«Con i debiti che abbiamo, prima cominciamo a lavorare meglio è.»

«La stessa cosa vale anche per lei?» domandò Caldwell ad Angela, che rispose affermativamente.

David volle rivedere l’ambulatorio e fu accompagnato da un Kelley entusiasta.

Arrivando davanti alla porta, si fermò un momento a fantasticare su come sarebbe stato bene il suo nome sulla targa, sotto a quello del dottor Portland, ma quando aprì la porta e varcò la soglia, le sue fantasticherie s’interruppero alla vista di una figura che indossava gli indumenti verdi della sala operatoria. L’uomo balzò su dal divano, esclamando incollerito: «Che cosa significa questo?»

A David ci volle qualche secondo per riconoscere il dottor Portland. Lo trovò molto cambiato: era emaciato e pallido, con occhiaie profonde.

Kelley si affrettò a ripresentare David e il dottor Portland cambiò immediatamente atteggiamento. Svanita la collera, si afflosciò come un palloncino bucato, lasciandosi ricadere sul divano.

«Mi spiace di averla disturbata», si scusò David.

«Stavo facendo un pisolino», spiegò il collega con una voce debole, proprio come il suo aspetto fisico. «Stamattina ho operato e sono molto stanco.»

«Tom Baringer?» chiese Caldwell che, nel vedere un cenno affermativo, aggiunse: «Spero che sia andato tutto bene».

«L’operazione sì», rispose il dottor Portland. «Ora non ci rimane che incrociare le dita per il decorso postoperatorio.»

David si scusò nuovamente, dopodiché uscì con gli altri dallo studio.

«Che cos’ha che non va?» domandò.

«Niente, che io sappia», rispose Kelley.

«Non ha l’aria di stare bene.»

«Mi è sembrato depresso», aggiunse Angela.

«Lavora molto», ammise Kelley. «Sono certo che si tratta solo di sovraffaticamento da lavoro.»

Il gruppetto si fermò davanti al suo ufficio e Kelley chiese se c’era qualcosa che potesse fare per rendersi utile, ora che il trasferimento dei Wilson era certo.

«Dovremmo cercare una casa», rispose Angela. «A chi ci consiglia di rivolgerci?»

«A Dorothy Weymouth», le rispose Caldwell e, mentre Kelley annuiva, aggiunse: «È di gran lunga l’agente immobiliare migliore della città. Venite nel mio ufficio che le telefoniamo».

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