Non si muoveva. Non respirava.
Chiuse gli occhi e pregò, mentre un’oscurità eterna la inghiottiva. Piangi, maledetto, piangi…
Padre Varick fu il primo a sentire i mugolii. Lui e i suoi confratelli si erano rifugiati nella cantina sotto la chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Erano fuggiti all’inizio dei bombardamenti, la sera precedente. In ginocchio, avevano pregato che la loro isola fosse risparmiata. La chiesa, costruita nel XV secolo, era sopravvissuta all’avvicendarsi continuo di signori e padroni di quella città di confine. Loro chiedevano una protezione dal cielo per poter sopravvivere ancora.
Fu in quel devoto silenzio che i gemiti lamentosi giunsero alle orecchie dei monaci. Padre Varick si alzò, cosa che richiese un grande sforzo alle sue gambe decrepite.
«Dove vai?» chiese Franz.
«Sento che il mio gregge mi chiama», rispose il frate. Negli ultimi due decenni aveva nutrito di avanzi i gatti che bazzicavano lì attorno e a volte anche qualche cane randagio che frequentava la chiesa lungo il fiume.
«Non è il momento, adesso», lo ammonì un altro confratello, con la voce pregna di paura.
Padre Varick aveva vissuto troppo a lungo per temere la morte con tale fervore giovanile. Attraversò la cantina e si chinò per entrare nel breve corridoio che terminava con una porta sul fiume. In passato quel corridoio era servito a trasportare carbone, che veniva immagazzinato dove ormai, tra la polvere e il legno di quercia, erano custodite soltanto bottiglie di vino pregiato.
Il frate raggiunse la vecchia porta della carbonaia, sollevò il paletto e aprì il chiavistello.
Diede una spallata e, cigolando, la porta si aprì. Dapprima fu investito dal fumo pungente, poi i mugolii gli fecero abbassare lo sguardo. «Mein Gott im Himmel…»
A pochi passi dalla porta, una donna era crollata nei pressi del contrafforte su cui poggiava la chiesa. Non si muoveva. Si precipitò verso di lei, gettandosi un’altra volta in ginocchio, con una nuova preghiera sulle labbra.
Le toccò il collo in cerca di segni di vita, ma trovò soltanto sangue e devastazione. Era fradicia dalla testa ai piedi e fredda come la pietra.
Morta.
Poi sentì ancora i gemiti, provenienti dall’altro fianco della donna.
La scostò, trovando un bambino, mezzo sepolto sotto di lei, coperto di sangue anche lui.
Sebbene fosse livido per il freddo e altrettanto fradicio, il piccolo era ancora vivo. Il frate liberò il neonato dal cadavere. Le fasce bagnate che lo avvolgevano caddero con tutto il carico d’acqua che le appesantiva.
Era un maschio.
Il frate sfregò alacremente il corpicino e constatò che il sangue non apparteneva al neonato, ma soltanto alla madre.
Lanciò uno sguardo triste alla donna. Ancora morte. Scrutò la sponda opposta del fiume. La città era in fiamme, il fumo intorbidiva l’alba. Gli spari continuavano. Quella donna aveva attraversato il canale a nuoto? Per salvare suo figlio?
«Riposa», le sussurrò. «Te lo sei meritato.»
Padre Varick tornò sui suoi passi, verso la porticina. Asciugò il bambino dall’acqua e dal sangue. Il piccolo aveva capelli morbidi e sottili, bianchi come la neve. Non poteva avere più di un mese.
Con le cure di Varick, i gemiti del bambino divennero più forti, il viso contratto dallo sforzo, ma rimaneva comunque debole e freddo, inerte.
«Piangi, piccolo, piangi.»
In risposta a quella voce, il neonato dischiuse le palpebre gonfie. Varick fu salutato da occhi di un blu brillante e puro. D’altra parte, quasi tutti i neonati avevano gli occhi blu. Tuttavia Varick aveva la sensazione che quegli occhi avrebbero mantenuto quel colore celeste così ricco.
Avvicinò il piccolo a sé per scaldarlo. Gli cadde l’occhio su una macchia di colore. Was ist das? Girò il piede del bambino. Sul calcagno, qualcuno aveva disegnato un simbolo.
Anzi non era disegnato. Lo sfregò per esserne sicuro.
Era tatuato con inchiostro cremisi. Lo studiò. Sembrava una zampa di corvo.
Ma padre Varick aveva trascorso buona parte della sua gioventù in Finlandia. Riconobbe il simbolo per ciò che era effettivamente: una runa norrena. Non aveva idea di quale runa fosse o di che cosa significasse. Scosse la testa. Chi aveva commesso una tale sciocchezza?
Lanciò uno sguardo alla madre, aggrottando le sopracciglia.
Non importava, i peccati dei genitori non devono gravare sui figli. Finì di asciugare il sangue sulla sommità della testolina e infilò il bambino sotto la sua veste calda.
«Povero piccolo, che brutta accoglienza ti ha riservato il mondo.»
Himalaya,
campo base Everest, 5364 m,
ai giorni nostri,
16 maggio, ore 06.34
La morte cavalcava il vento.
Taski, il capo degli sherpa, aveva pronunciato quel verdetto con tutta la solennità e la certezza della sua professione. L’uomo, tarchiato, raggiungeva appena il metro e cinquanta col malandato cappello da cowboy, ma dal portamento si sarebbe detto che fosse più alto di chiunque altro, su quella montagna. I suoi occhi, nascosti dalle palpebre semichiuse, studiavano le bandierine di preghiera agitate dal vento.
La dottoressa Lisa Cummings lo inquadrò con la Nikon D-100 e scattò una foto. Taski era la guida del gruppo, ma era anche il soggetto dei test psicometrici di Lisa, un candidato perfetto per le sue ricerche.
Era andata in Nepal grazie a una borsa di studio per osservare gli effetti fisiologici di un’ascensione dell’Everest senza riserve d’ossigeno. Prima del 1978, nessuno aveva mai raggiunto la cima dell’Everest senza servirsi di ossigeno supplementare: l’aria era troppo rarefatta. Persino gli alpinisti esperti, pur aiutandosi con le bombole d’ossigeno, mostravano sintomi di affaticamento estremo, problemi di coordinazione, diplopia, allucinazioni. Si riteneva impossibile raggiungere la vetta di una montagna alta ottomila metri senza una riserva d’aria.
Poi, nel 1978, due alpinisti tirolesi realizzarono l’impossibile e arrivarono in cima, contando soltanto sui loro affannati polmoni. Negli anni successivi il loro esempio fu seguito da circa sessanta persone, uomini e donne, che consacrarono la nuova meta dell’élite degli alpinisti.
La dottoressa Cummings non avrebbe potuto sperare in un migliore test di resistenza alla bassa pressione atmosferica.
Qualche tempo prima, sempre grazie a una borsa di studio, aveva concluso un’altra ricerca, durata cinque anni, riguardo agli effetti dei sistemi ad alta pressione sui processi fisiologici umani. In quel caso aveva studiato i sommozzatori, a bordo di una nave di ricerca, la Deep Fathom. Poi le circostanze le avevano imposto un cambiamento… sia nella vita professionale sia in quella personale. Perciò aveva accettato una borsa di studio dell’NSF, la fondazione nazionale per la scienza, per svolgere ricerche antitetiche: studiare gli effetti fisiologici dei sistemi a bassa pressione.
E così era finita sul tetto del mondo.
Lisa cambiò posizione per scattare un’altra foto a Taski Sherpa. Come molti altri fra la sua gente, Taski usava come cognome la denominazione del suo gruppo etnico.
L’uomo si allontanò dalle bandierine di preghiera, annuì vigorosamente e, con la sigaretta stretta fra due dita, indicò la cima svettante. «Brutta giornata. La morte cavalca il vento», ripeté, poi si rimise in bocca la sigaretta e se ne andò. Per lui la faccenda era risolta.
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