Emilio Salgari - Il Corsaro Nero
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– Sapete dove siamo?
– A dieci o dodici miglia da Maracaybo.
– È situata dietro questo bosco la città?
– Sul margine di questa macchia gigantesca.
– Potremo entrare questa notte?…
– È impossibile capitano. Il bosco è foltissimo e non potremo attraversarlo prima di domani mattina.
– Sicché saremo costretti ad attendere fino a domani sera?
– Se non volete arrischiarvi di entrare in Maracaybo di giorno, bisognerà rassegnarsi ad aspettare.
– Mostrarci in città di giorno sarebbe un’imprudenza, – rispose il Corsaro, come parlando fra sé stesso. – Se avessi qui la mia nave pronta ad appoggiarci ed a raccoglierci, l’oserei, ma la Folgore incrocia ora nelle acque del gran golfo. -
Rimase alcuni istanti immobile e silenzioso, come se fosse immerso in profondi pensieri, quindi riprese:
– E mio fratello, potremo trovarlo ancora?
– Rimarrà esposto sulla Plaza de Granada tre giorni, – disse Carmaux. – Ve lo dissi già.
– Allora abbiamo tempo. Avete conoscenze in Maracaibo?
– Sí, un negro, quello che ci offrí il canotto per fuggire. Abita sul margine di questa foresta in una capanna isolata.
– Non ci tradirà?
– Rispondiamo di lui.
– In cammino.
Salirono la sponda, Carmaux dinanzi, il Corsaro in mezzo e Wan Stiller in coda e si cacciarono in mezzo all’oscura boscaglia procedendo cautamente, cogli orecchi tesi e le mani sui calci delle pistole, potendo cadere da un istante all’altro in un agguato.
La foresta si rizzava dinanzi a loro, tenebrosa come una immensa caverna. Tronchi d’ogni forma e dimensione si ergevano verso l’alto, sostenendo foglie smisurate, le quali impedivano assolutamente di scorgere la volta stellata.
Festoni di liane cadevano dappertutto, intrecciandosi in mille guise, salendo e scendendo dai tronchi delle palme e correndo da destra a sinistra, mentre al suolo strisciavano, attorcigliate le une alle altre, radici smisurate, le quali ostacolavano non poco la marcia dei tre filibustieri, costringendoli a fare dei lunghi giri per trovare un passaggio, o a mettere mano alle sciabole d’arrembaggio per reciderle.
Dei vaghi bagliori, come di grossi punti luminosi, che proiettavano ad intervalli dei veri sprazzi di luce, correvano in mezzo a quelle migliaia di tronchi, danzavano ora a livello del suolo ed ora in mezzo al fogliame. Si spegnevano bruscamente, poi si riaccendevano e formavano delle vere onde luminose di una incomparabile bellezza, che aveva qualche cosa di fantastico.
Erano le grosse lucciole dell’America Meridionale, le vaga lume che tramandano una luce cosí vivida da permettere di leggere le scritture piú minute anche alla distanza di qualche metro e che rinchiuse in un vasetto di cristallo in tre o quattro, bastano ad illuminare una stanza; e le lampyris occidental o perilampo, altri bellissimi insetti fosforescenti che si trovano in grandissimi sciami nelle foreste della Guiana e dell’Equatore.
I tre filibustieri, sempre nel piú profondo silenzio, continuavano la marcia, non lasciando le loro precauzioni, poiché oltre gli uomini, avevano da temere anche gli abitanti delle foreste, i sanguinari giaguari e soprattutto i serpenti, specialmente gli jaracarà, rettili velenosissimi, che sono difficili a scorgersi anche di giorno essendo la loro pelle del colore delle foglie secche.
Dovevano aver percorso due miglia, quando Carmaux, che si trovava sempre dinanzi, essendo il piú pratico dei luoghi, s’arrestò bruscamente armando con precipitazione una delle sue pistole.
– Un giaguaro od un uomo? – chiese il Corsaro, senza la minima apprensione.
– Può essere stato un giaguaro, ma anche una spia, – rispose Carmaux. – In questo paese non si è mai certi di vedere l’indomani.
– Dov’è passato?
– A venti passi da me.
Il Corsaro si curvò verso terra ed ascoltò attentamente, trattenendo il respiro. Un leggero scrosciare di foglie giunse fino a lui; era però cosí debole che solamente un orecchio molto esercitato ed acuto poteva udirlo.
– Può essere un animale, – rispose rialzandosi. – Bah!… Noi non siamo uomini da spaventarci. Impugnate le sciabole e seguitemi.
Girò intorno al tronco di un albero enorme che torreggiava in mezzo alle palme, poi sostò in mezzo ad un gruppo di foglie giganti scrutando le tenebre.
Lo scrosciare delle foglie secche era cessato, tuttavia al suo orecchio giunse un tintinnio metallico e poco dopo un colpo secco come se il cane d’un fucile venisse alzato.
– Fermi! Qui vi è qualcuno che ci spia e che aspetta il momento opportuno per farci fuoco addosso.
– Che ci abbiano veduti sbarcare? – borbottò Carmaux, con inquietudine. – Questi spagnuoli hanno spie dappertutto.
Il Corsaro aveva impugnata colla destra la spada e colla sinistra una pistola e cercava di girare quell’ammasso di foglie, senza produrre il minimo rumore. Ad un tratto Carmaux e Wan Stiller lo videro slanciarsi innanzi e piombare, con un solo salto, addosso ad una forma umana, che si era improvvisamente alzata in mezzo ad un cespuglio.
L’assalto del Corsaro era stato cosi improvviso ed impetuoso che l’uomo che si teneva imboscato era andato a gambe levate, percosso in pieno viso dalla guardia della spada.
Carmaux e Wan Stiller si erano subito precipitati su di lui, e mentre il primo s’affrettava a raccogliere il fucile che l’uomo imboscato aveva lasciato cadere, senza avere avuto il tempo di scaricarlo, l’altro puntava la pistola dicendo:
– Se ti muovi sei un uomo spacciato.
– È uno dei nostri nemici, – disse il Corsaro che si era curvato.
– Un soldato di quel dannato Wan Guld, – rispose Wan Stiller. – Che cosa faceva imboscato in questo luogo? Sarei curioso di saperlo.
Lo spagnuolo, che era stato stordito dalla guardia della spada del Corsaro, cominciava a riaversi, accennando ad alzarsi.
– Carrai! – borbottò con un tremito nella voce. – Che sia caduto tra le mani del diavolo?
– L’hai indovinato, – disse Carmaux. – Giacché a voi piace chiamare cosí noi filibustieri.
Lo spagnuolo provò un brivido cosí forte, che Carmaux se ne accorse.
– Non aver tanta paura, per ora, – gli disse, ridendo. – Risparmiala per piú tardi, per quando danzerai nel vuoto un fandango disordinato con un bel pezzo di solida canapa stretto alla gola.
Poi volgendosi verso il Corsaro, che guardava in silenzio il prigioniero, gli chiese:
– Devo finirlo con un colpo di pistola?
– No, – rispose il capitano.
– Preferite appiccarlo ai rami di quell’albero?
– Nemmeno.
– Forse è uno di quelli che hanno appiccato i Fratelli della Costa ed il Corsaro Rosso, mio capitano.
A quel ricordo un lampo terribile balenò negli occhi del Corsaro Nero, ma subito si spense.
– Non voglio che muoia, – disse con voce sorda. – Può esserci piú utile d’un appiccato.
– Allora leghiamolo per bene, – dissero i due filibustieri.
Si levarono le fasce di lana rossa che portavano ai fianchi e strinsero le braccia del prigioniero, senza che questi osasse fare resistenza.
– Ora vediamo un pò chi sei, – diesse Carmaux.
Accese un pezzo di miccia da cannone che teneva in tasca e l’accostò al viso dello spagnuolo.
Quel povero diavolo, caduto nelle mani dei formidabili corsari della Tortue, era un uomo di appena trent’anni, lungo e magro come il suo compatriota Don Chisciotte, con un viso angoloso, coperto da una barba rossiccia e due occhi grigi, dilatati dallo spavento.
Indossava una casacca di pelle gialla con qualche rabesco, corti e larghi calzoni a righe nere e rosse e calzava lunghi stivali di pelle nera. Sul capo invece portava un elmetto d’acciaio adorno di una vecchia piuma, la quale non aveva piú che rade barbe e dalla cintura gli pendeva una lunga spada, la cui guaina era assai irruginita alle sue estremità.
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