Emilio Salgari - Il re del mare
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– Dove sei stato sorpreso?
– Sulle isolette della foce.
– Quando?
– Due giorni or sono. Alcuni uomini che avevano lavorato nelle piantagioni del kampong mi avevano subito riconosciuto, sicchè assalirono senza indugio il mio canotto e mi fecero prigioniero. Dovevano essersi immaginati che Tremal-Naik mi aveva mandato alla costa per attendere qualche soccorso, perchè mi sottoposero ad un lungo interrogatorio, minacciando di accopparmi se non rivelavo loro lo scopo della mia gita. Siccome rifiutavo ostinatamente di rispondere, quei miserabili mi gettarono in una buca che era prossima ad un formicaio, mi legarono per bene, poi mi fecero sul corpo alcune incisioni onde il sangue uscisse.
– Briganti!
– Voi sapete, signor Yanez, quanto sono avide di carne le formiche bianche. Attirate dall’odore del sangue non tardarono ad accorrere a battaglioni e cominciarono a divorarmi, vivo, pezzetto a pezzetto.
– Un supplizio degno di selvaggi.
– E che durò un buon quarto d’ora facendomi provare tormenti spaventevoli. Fortunatamente quegli insetti si erano gettati anche sulle corde che mi legavano le braccia e le gambe e non tardarono a rosicchiare anche quelle, essendo state spalmate d’olio di cocco onde, disseccandosi, mi stringessero vieppiù.
– E tu, appena libero, scappasti? – disse Yanez.
– Ve lo potete immaginare, – rispose il meticcio. – Essendosi i dayaki allontanati, mi gettai nella vicina foresta, raggiunsi il fiume e avendo trovato sulla riva un canotto munito d’una vela, presi senza indugio il largo, avendo già scorto in lontananza il vostro veliero.
– Sei stato però ben vendicato!
– E ne sono lieto, signor Yanez. Quei selvaggi non meritano compassione. Oh!
Quell’esclamazione gli era sfuggita, scorgendo alcuni fuochi che brillavano sulle coste delle isolette che formavano la barra del fiume.
– I dayaki vegliano, signor Yanez, – disse.
– Lo vedo, – rispose il portoghese. – Possiamo passare al largo, senza essere veduti?
– Prenderemo l’ultimo canale, – rispose il meticcio, dopo d’aver osservato attentamente la foce del fiume. – In quella direzione non vedo brillare alcun fuoco.
– Vi sarà acqua bastante?
– Sì, ma vi sono dei banchi colà.
– Ah! diavolo!
– Non temete, signor Yanez. Conosco benissimo la foce e spero di farvi entrare nel Kabatuan senza malanni.
– Noi intanto prenderemo le nostre precauzioni per respingere qualsiasi attacco, – rispose il portoghese, avvicinandosi verso il castello di prora.
La Marianna, spinta da una leggera brezza di ponente, scivolava dolcemente, come se appena sfiorasse l’acqua, accostandosi sempre più alla foce del fiume.
La marea che montava ancora doveva facilitare l’entrata, risalendo per un buon tratto il Kabatuan.
L’equipaggio, eccettuati due o tre uomini incaricati della cura dei feriti, era tutto in coperta, al posto di combattimento, non essendo improbabile che i dayaki, nonostante la terribile sconfitta, tentassero nuovamente un abbordaggio o aprissero il fuoco tenendosi nascosti fra i boschetti che coprivano le isole.
Tangusa che teneva la barra e che, come abbiamo detto, conosceva a menadito la baia, guidò la Marianna in modo da tenerla lontana dai fuochi che ardevano presso le scogliere e che dovevano dominare gli accampamenti dei nemici, poi con un’abile manovra la spinse dentro un canale piuttosto stretto che s’apriva fra la costa ed un isolotto, senza che alcun grido d’allarme fosse partito nè da una parte nè dall’altra.
– Siamo nel fiume, signore, – disse a Yanez, che lo aveva raggiunto.
– Non ti sembra un po’ strano che i dayaki non si siano accorti della nostra entrata?
– Forse dormivano della grossa e non sospettavano che noi potessimo trarci così felicemente dal banco.
– Uhm! – fece il portoghese, scuotendo il capo.
– Dubitate?
– Io ritengo che ci abbiano lasciati passare per darci battaglia sull’alto corso del fiume.
– Può darsi, signor Yanez.
– Quando potremo giungere?
– Non prima di mezzodì.
– Quanto dista il kampong dal fiume?
– Due miglia.
– Di foresta, probabilmente.
– E folta, signore.
– Peccato che Tremal-Naik non abbia fondata la sua principale fattoria sul fiume. Noi saremo costretti a dividere le nostre forze. È bensì vero che i miei Tigrotti si battono splendidamente sia sui ponti dei loro prahos, che a terra.
– Saliamo dunque, signore? Il vento è favorevole e la marea ci spingerà per qualche ora ancora.
– Avanti e bada di non mandare la Marianna in secco.
– Conosco troppo bene il fiume.
– Il veliero superò una lingua di terra che formava la barra del fiume e rimontò la corrente, spinto dalla brezza notturna che gonfiava le sue enormi vele.
Quel corso d’acqua, che è ancora oggidì poco noto, in causa della continua ostilità dei dayaki che non risparmiano nemmeno le teste degli esploratori europei, era largo un centinaio di metri e scorreva fra due rive piuttosto alte, coperte da manghi, da durion e da alberi gommiferi. Nessun fuoco si vedeva brillare sotto gli alberi, nè si udiva alcun rumore che indicasse la presenza di quei formidabili cacciatori di teste.
Solo di quando in quando nelle acque, che dovevano essere profonde, echeggiava un tonfo prodotto dall’improvvisa immersione di qualche gaviale addormentato a fior d’acqua, che la massa del veliero aveva spaventato. Quel silenzio tuttavia non rassicurava affatto Yanez, il quale anzi raddoppiava la vigilanza, cercando di scoprire qualche cosa sotto la fosca ombra degli alberi.
– No, – mormorava, – è impossibile che noi abbiamo potuto passare inosservati. Deve succedere qualche cosa; fortunatamente conosciamo il nemico e non ci coglierà di sorpresa.
Era trascorsa una mezz’ora, senza che nulla fosse accaduto di straordinario, ed il portoghese cominciava a rassicurarsi, quando, verso il basso corso del fiume, si vide una linea di fuoco alzarsi al di sopra dei grandi alberi.
– Toh! un razzo! – aveva esclamato Sambigliong, che aveva potuto scorgerlo prima che si spegnesse.
La fronte di Yanez si era abbuiata.
– Come mai questi selvaggi posseggono dei razzi di segnalazione? – si chiese.
– Capitano, – disse Sambigliong, – ciò è una prova che in tutta questa faccenda vi è lo zampino degli inglesi. Questi ignoranti non li hanno mai conosciuti prima d’ora.
– O che li abbia portati quel pellegrino misterioso.
– Là, guardate, comandante: si risponde.
Yanez si era vivamente voltato verso la prora ed a una notevole distanza, verso l’alto corso del fiume, invece, aveva veduto spegnersi in cielo un’altra linea di fuoco.
– Tangusa, – disse, volgendosi verso il meticcio, che non aveva abbandonata la barra. – Pare che si preparino a farci passare una brutta notte, gli ex coltivatori del tuo padrone.
– Lo sospetto anch’io, signore, – rispose il meticcio.
In quell’istante verso prora si udirono delle esclamazioni.
– Lucciole!
– O fuochi?
– Guarda lassù.
– Brucia il fiume!
– Signor Yanez! Signor Yanez!
Il portoghese in pochi salti fu sul castello di prora, dove si erano già radunati parecchi uomini dell’equipaggio.
Tutto l’alto corso del fiume, che scendeva in linea quasi retta con leggeri serpeggiamenti, appariva coperto da miriadi di punti luminosi che ora si raggruppavano ed ora si disperdevano, per riunirsi poco dopo in linee ed in macchie foltissime.
Yanez era rimasto talmente sorpreso, che stette per qualche minuto silenzioso.
– Qualche fenomeno, capitano? – chiese Sambigliong. – È impossibile che quelle siano lucciole.
– Nemmeno io lo credo, – rispose finalmente Yanez, la cui fronte si abbuiava sempre più.
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