Emilio Salgari - Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero: краткое содержание, описание и аннотация

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«Señor, lasciate andare le vostre collere, e accettate un crostino. Abbiamo qui un po’ di biscotto, una bella anitra arrostita ieri mattina e anche un paio di bottiglie di vino spagnolo, che non varranno meno di quelle del taverniere.

«È poca cosa per un signore pari vostro, ma per il momento non abbiamo di meglio da offrirvi».

Carmaux trasse dalla cassa le provviste, ne fece tre parti uguali e slegò le braccia al prigioniero, dicendo:

Don Raffaele, a cui la brezza marina aveva messo indosso un certo appetito, pur brontolando e roteando gli occhi, si mise a mangiare e non rifiutò un paio di bicchieri di Porto offertigli con gentilezza un po’ ironica da Carmaux, né un eccellente sigaro di tabacco di S. Cristoforo regalatogli dall’amburghese.

A mezzodì la baleniera si trovava già nelle acque del golfo Caro, formato da una parte dalla costa venezuelana e dall’altra dalla penisola di Paraguana.

L’amburghese, che teneva sempre il timone e che si regolava su di una bussola tascabile, mise la prora verso il capo Cardon, che già si delineava vagamente sull’orizzonte.

Il golfo era deserto, poiché di rado le navi spagnole ardivano spingersi lontane dai porti ben difesi, se non erano in buon numero e per lo meno scortate da qualche nave d’alto bordo, per paura di venire catturate dai terribili corsari della Tortue.

La baleniera continuò tutto il giorno ad inoltrarsi verso settentrione, favorita da una brezza sempre fresca e dalle acque che erano appena mosse. Nel momento in cui il sole tramontava, giungeva dinanzi alla baia d’Amnay, rifugio in quell’epoca affatto disabitato e molto di rado frequentato dalle navi, che non vi cercavano un approdo se non in causa di qualche violentissima tempesta.

«Ci siamo» disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.

Il disgraziato piantatore, che dopo la colazione si era chiuso in un ostinato silenzio, sospirò a lungo, senza rispondere.

La scialuppa manovrò per alcuni minuti in mezzo ad alcune catene di scoglietti a fior d’acqua, poi si cacciò arditamente nella baia, alla cui estremità si vedevano delle masse oscure sormontate da alte alberature ed antenne.

«Che cosa sono? Delle navi?» chiese don Raffaele che erasi fatto smorto.

«È la flotta del capitano Morgan» rispose Carmaux.

«Una flotta?»

«Che farà buona prova contro i forti di Maracaybo».

Dietro una punta rocciosa era comparsa improvvisamente una grossa fregata, che si trovava ancorata dinanzi alle altre navi, in modo da sbarrare l’entrata della baia,.

«Ohè!» gridò Carmaux, facendo portavoce colle mani.

«Chi vive?» gridò una voce alzatasi sul ponte della nave.

«Fratelli della Costa: Carmaux e Wan Stiller. Calate la scala!»

La baleniera accostò la nave sotto il tribordo e si ormeggiò all’estremità della scala di corda, che era stata subito gettata dagli uomini di guardia.

«Señor, coraggio» disse Carmaux, sciogliendo le corde che stringevano le gambe del piantatore.

«Sì, ne avrò per morire» disse don Raffaele con voce cupa.

Quantunque si sentisse tremare le gambe, si aggrappò alla scala e dopo una mezza dozzina di sospiri, gli uni più profondi degli altri, si trovò sulla nave ammiraglia della flotta corsara.

Alcuni uomini, armati fino ai denti e muniti di lanterne, accorsero subito circondandolo e guardando con viva curiosità.

«Il capitano?» chiese Carmaux.

«È nella sua cabina».

«Fate chiaro. Venite, señor e non tremate tanto».

Prese il piantatore per un braccio e, parte spingendolo e parte tirandolo, lo condusse nel quadro, introducendolo in un salotto che era illuminato da una lampada d’argento e che aveva le pareti coperte d’armi da fuoco e da taglio.

Un uomo di mezza età, di statura piuttosto bassa, ma robustissimo, dall’aspetto fiero, cogli occhi nerissimi e vivaci, stava seduto dinanzi ad un tavolo tenendo dinanzi a sé delle carte marine, che stava esaminando con profonda attenzione.

Vedendo entrare i due uomini s’alzò quasi di scatto, chiedendo:

«Che cosa mi porti, mio bravo Carmaux?»

«Un uomo, signore, che potrà dirvi quanto desiderate sapere sulla figlia del cavaliere di Ventimiglia».

Una rapida emozione alterò per un istante i fieri lineamenti del terribile corsaro.

«È là, è vero?» chiese a Carmaux.

«Sì, capitano».

«Nelle mani degli spagnoli?»

«Prigioniera del governatore».

«Grazie, Carmaux: esci e lasciami solo con quest’uomo».

Capitolo quarto. Morgan

Morgan, dopo la scomparsa del suo comandante, il Corsaro Nero, non aveva abbandonato il golfo del Messico, né i filibustieri della Tortue.

Dotato d’una forza d’animo straordinaria, d’un coraggio a tutta prova e di larghe vedute, non aveva tardato a farsi largo fra i Fratelli della Costa, i quali si erano ben presto accorti che quell’uomo avrebbe potuto condurli a grandi imprese.

Possessore ancora d’una discreta fortuna, raccolti gli avanzi dell’equipaggio della Folgore, si era subito messo in mare, accontentandosi dapprima di assalire le navi isolate, che commettevano l’imprudenza di solcare senza scorta, le acque di San Domingo e di Cuba.

Quella crociera, più pericolosa che fruttifera, durava daparecchi anni con varia fortuna, quando gli venne offerto il comando di una squadra composta di dodici navi fra grosse e piccole, con un equipaggio di settecento uomini, per tentare qualche grossa impresa a danno degli spagnoli.

Morgan non aspettava che l’occasione di aver forze sufficienti, per realizzare i suoi grandiosi progetti.

Salpò quindi dalla Tortue annunciando che va ad assalire Puerto del Principe, una delle più ricche e anche delle meglio difese città dell’isola di Cuba.

Un prigioniero spagnolo che era a bordo della sua flotta, con un coraggio temerario si gettò in acqua e, riuscito a prendere terra, corse ad avvertire il governatore di quella città del pericolo che la minacciava.

Il governatore aveva sottomano ottocento soldati valorosissimi e sapeva di poter contare sulla popolazione.

Marciò sui corsari ed impegnò un disperato combattimento, ma dopo quattro ore i suoi soldati volgono in fuga, lasciando sul campo di battaglia fra morti e feriti più di tre quarti di loro.

Lo stesso governatore era caduto.

Morgan, imbaldanzito della vittoria, assaltò la città e, nonostante la difesa opposta dagli abitanti, se ne impadronì e la saccheggiò con poco profitto però, perché gli abitanti avevano avuto tempo di nascondere nei boschi le loro migliori cose.

Saputo da una lettera che era stata intercettata, che un grosso corpo di spagnoli accorreva da Santiago per cacciarli dalla città, i filibustieri si guastarono col loro capo, che accusavano di averli condotti ad una impresa più pericolosa che fruttifera.

Una rissa nata fra i marinai francesi ed inglesi, che formavano gli equipaggi fece nascere una viva discordia. I primi si separarono da Morgan; i secondi invece, che disponevano di otto navi, giurarono di seguirlo ovunque egli volesse condurli.

Si parlava molto in quell’epoca dell’opulenza di Portobello, una delle più belle città dell’America centrale, che riceveva tesori immensi da Panama, ma che era anche una delle meglio fortificate e delle meglio guardate.

Nella mente audace di Morgan, nasce l’idea di piombare su quella città e di tentarne l’espugnazione.

Quel progetto sembrava così temerario che i filibustieri crollarono la testa quando li avvertì del suo disegno.

«Che importa» disse allora il fiero corsaro, «se piccolo è il nostro numero, quando grandi sono i nostri cuori?»

Come resistere a quell’uomo? E la squadra, fidando nell’abilità del suo ammiraglio, veleggiò verso Portobello. Era l’anno 1668.

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