Francesco Domenico - La battaglia di Benvenuto

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«Rogiero,» disse Yole sollevando maestosamente il suo corpo, «sono parole queste, che un servo fedele possa favellare alla figlia del suo signore? Può la nepote della Imperatrice Gostanza convenientemente ascoltarle?»

«Non so, Principessa, se a voi stia bene ascoltarle, ma sapeva bene che in me era delitto profferirle.»

«Abbiatevi il mio perdono… vivete… ponete l’amore vostro in più avventurosa donzella, e che possa corrispondervi; me obliate.» E questo disse con voce soffocata; poi soggiunse con maggiore amarezza: «Rogiero, tanta corre la distanza in questo mondo tra noi, che non potete sperare di essermi unito in nessuno altro luogo che in cielo, dove, tolta ogni molesta distinzione, siamo tutti uguali nell’amore di un Solo

«Questo non ignorava, e però senza speranza vi amava, senza speranza i miei interni tormenti vi apriva. È vero che amore può molto più che noi non possiamo; ma è vero ben anco, che occorrono distanze a percorrere impossibili; e voi, orgogliosi, balzati dalla ingiustizia o dal caso sui troni della terra, stimate avere onnipotente impero sopra le anime immortali. Miserabili! e non sapete che l’anima ha tali ferite, che nessuna potenza al mondo vale a sanare! – Dovrei forse accusarti di presunzione, per avere voluto conoscere un male che non istava in tuo potere di volgere a bene, e farti sentire che sei polvere… coronata sì, ma polvere? No: valgati l’animo cortese, e la lusinga del potere che troppo ti fa baldanzosa, e più valgati trovarmi io disposto da gran tempo alla morte, e disperato affatto. Pareami morire con un peso sull’anima tenendo celato il mio amore; ora, poichè l’ho potuto svelare, parmi che poserà su di me più leggera la terra del sepolcro. – Yole, la religione e il cuore ammaestrano di una seconda vita, e più durevole: la mente abbandonata a temerarii pensieri la nega. Comunque ciò sia, quello che ora ti domando, con la preghiera più profonda della mia anima lacerata, o farà lieto lo spirito se sopravvive alla mia morte, o il solo istante della mia partenza dalle cose viventi: – un sospiro ti chiedo, un solo sospiro. Il tempo non ha velocità da misurarne la durata, ma egli è una eternità di contento per colui al quale s’invia; e quando, sposa felice di un potente della terra, vedrai le spoglie delle vinte nazioni al piè del tuo trono, e te sollevata a tanta grandezza che dopo Dio l’uomo volga a te le sue preghiere e i suoi voti, e udrai il tuo sposo chiamarti l’eletta del cuore, e dirti per te avere ornate le sue tempie di alloro, per te acquistato il premio maggiore che la gloria può concedere all’uomo, e nel tuo nome avere combattuto, e nel tuo nome aver vinto… oh! allora ti ricorra alla mente il pensiero del povero Rogiero che ti amò tanto… e ricorda sospirando: egli mi amava così; – e tu piangerai, e alla storia della mia feroce sventura forse piangerà anche il tuo magnanimo consorte, – piangeranno tutti. – Nessuna altra gioia occorre in questa vita, tranne la speranza di un sepolcro lagrimato… Yole, l’ora della mia dipartenza è arrivata; prega per un’anima che passa, i di cui ultimi pensieri non possono essere di Dio…»

Pallido come quello che viene strascinato al patibolo, ma fermo nel suo fiero talento, Rogiero cavò il pugnale, e fece atto di rompersi il seno.

Forse non aveva Yole sopportato fin qui la più grave battaglia, che femmina al mondo voglia e possa sostenere? Doveva ella resistere anche a questa ultima prova, e, dovendolo, lo poteva? La passione repressa proruppe impetuosa, imperciocchè le passioni tengano della natura del fuoco; e la bella addolorata, a guisa di furente, mal sapendo che si facesse, si gittò al collo di Rogiero, ponendo il suo corpo tra il pugnale e il seno di quello. Pure così veloce fu l’atto, nè egli seppe di tanto trattenere il colpo, che a lei non iscendesse su la destra spalla, stracciasse le vesti, e la pelle lievemente sfiorasse. Ma il pugnale cadde, e rimasero abbracciati; il cuore dell’uno palpitò sul cuore dell’altro… le lagrime loro scesero confuse… le guancie, i labbri, si toccarono, – e il primo bacio di amore fu dato.

Io per me quando considero le sorti umane, credo che la gioia sia tremendo delitto davvero, perocchè la veda tanto gravemente punita; onde per quell’amore che porto ai miei compagni di maledizione, se alcuno ne incontro che adesso per anima, o per cosa acquistata, si dica felice, io mando una preghiera dalle interne mie viscere al Creatore del fulmine, e lo supplico che si degni nella sua pietà d’incenerirlo, e spargerne la polvere ai quattro venti della terra, onde l’uomo conosca, che può morire felice…

Ma perchè si rimangono tuttavia abbracciati? Oh! v’è una gioia in questa terra, che due amanti credano possa, non che superare, uguagliare gli abbracciamenti loro? Dov’è l’orgoglio del sangue? dove la paura della pena? Essi non hanno più da temere o da desiderare. Questo diletto trascorse, nè tornerà mai più. Il tempo, che essi hanno obliato, non si rimane dal percorrere la sua durata, e confondendo con le ore passate quella breve dolcezza mena velocissimo le sventure che devono intenebrare la rimanente lor vita.

La regina Elena, sposa di Manfredi, benchè per la nobiltà del suo sangue (chè discendeva dai Comneni di Epiro) alquanto orgogliosa, fu nondimeno affettuosissima madre. Una figlia ed un figlio avevano rallegrato il suo matrimonio. Gostanza, sua figliastra nata a Manfredi dalla sua prima moglie Beatrice di Savoia, portava di già corona reale, essendosi unita con Piero figlio di Giamo, potente Re di Arragona; rimaneanle però in casa Yole e Manfredino, vezzosissimo fanciullo, speranza del padre, di appena dieci anni nato; ma la sua tenerezza era per Yole, che considerava infelice; nè mai, per quanto s’ingegnasse, poteva trarla da quell’ostinato abbattimento. Le sue sembianze adesso erano maestose, una volta furono leggiadre quanto quelle della sua figlia Yole; se non che un tenue velo di malinconia , come dice il buon Pellico, diffuso per tutta la persona di questa, facea sì, che la gente piuttosto oggetto di reverenza, che di desiderio, la riputasse. Ora dunque in questa stessa sera la Regina seduta accanto il letticciuolo di Manfredino, poichè ebbe scôrto che il sonno era disceso su gli occhi della innocenza, si alzò diligentemente, e soffermatasi a considerare la pace che spirava dal volto di quel caro angioletto sentì spuntarsi una lagrima su le palpebre; allora curvò leggiera leggiera la persona, e datogli un bacio nella fronte gli susurrò sopra queste parole: – Dio sa, se pure te amo, o dolce figliuol mio; ma i tuoi sonni sono quelli del felice. Possa la pietà dell’Eterno concederti lungamente questi sonni! – Quindi lasciatolo in custodia di alcune damigelle, volse alla camera della sua diletta Yole.

Giunta che fu, aperse l’usciale; il vento, che soffiava nel corridore, glielo svelse di mano, e lo percosse con impeto alla parete. I doppieri della stanza tutti ad un punto si spensero: ella nondimeno avanzò; e sebbene acute strida la percotessero, avvisandosi di quello che era, senza turbarsi disse alle circostanti: «È qui la mia figlia Yole?» – Matelda, riconosciuta la voce, rispose tutta affannosa: «Santa Oliva di Palermo! siete voi, Regina? Voi ci avete fatto la più grande paura che mai sia stata al mondo.»

«Matelda,» soggiunse gravemente la Regina Elena «non su la vostra paura, ma di mia figlia io vi ho fatto domanda.»

«Regina, è nel giardino.»

«Rimanetevi con Dio, damigelle, e mostratevi in avvenire di più forte spirito, perchè sappiate la paura essere presentissimo segno di animo non retto.»

Così Elena, senz’altra compagnia, lasciando quelle codarde a rassicurarsi del terrore, e a dolersi del conseguito rimprovero, mosse al giardino reale, dove, poichè alquanto si fu aggirata, occorse in Gismonda. la quale, assorta nel pensiero degli ultimi casi, non le badò, se non dopo che l’ebbe per ben tre volte chiamata. A lei domandava di Yole; e vedutala mesta, volle saperne la causa, e conosciutala confortò la gentile damigella. Quindi unite si mossero a ricercare Yole.

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