Che cosa fare adesso? Pensava di scappar via; di correre dal garzone, il quale sapeva formar bambocci con la paglia o con la mota; pensava di inseguire una farfalla al sole.
Ma rammentava le minacce materne e l'imposizione di non scostarsi dal nonno; e trovò meglio imitare il nonno. Per dormire allo stesso modo di lui si assise al piede del noce, appoggiata al tronco. E il calabrone che, tra il folto, ronzava per addormentar lei pure, l'addormentò.
—
Il vecchione intanto sognava. Sognava di essere a mietere; e il frumento era tanto bello che pareva d'oro. Ma le grane d'oro uscivano dalle loppe; cadevano. Egli rampognava i figliuoli d'essere andati a mietere prima quello degli altri, a stagione avanzata; e si sentiva stanco di curvarsi a recider mannelle e di sgridare mentre tutti cantavano.
A poco a poco gli rifluiva nel cuore una soavità immensa. L'aria affocata s'alleviava, si affinava in una deliziosa frescura; e al di là del grano, il campo fioriva sotto il cielo d'un nitido turchino. Rose e garofani; papaveri e gigli. Poi sorgeva un'immagine, che avanzava passo passo: e sorrideva. Sembrava domandare: – Non mi riconosci?
Se la riconosceva! La sua donna, quando era giovane. E gli parve di sognare nel sogno, perchè la sua donna morta mutava il colore dei capelli e il colore degli occhi. E il sorriso, non più triste, la giocondava tutta, trasformandola. Un sogno nel sogno. L'immagine mutava, lentamente e distintamente, in una ragazza bionda, dagli occhi celesti, bellissima. Chi? Era lei; la bambina, ingrandita come se andasse a nozze; felice.
Egli vedeva bene che era un sogno, che non poteva essere già sposa; nondimeno a scorgerla così felice, non godeva: soffriva in fondo al cuore. E l'afflizione cresceva cresceva, e la nipote, che egli amava più di sè stesso, lo guardava in uno stupore muto. Ah ecco, tornava quale doveva essere: bambina; lo chiamava; e poichè, stretto al cuore, egli non ricuperava la voce a risponderle, rompeva in pianto.
Finchè, del tutto desto, il vecchione la vide che piangeva davvero, presso a lui. N'ebbe un insolito dispetto.
– Cos'hai da piangere? Smorfiosa!
Poverina! Aveva ragione di lamentarsi. Soffriva.
– Nell'orecchia? Cosa ci hai nell'orecchia?
– Una formica. – Piagnucolando portava la mano alla guancia, quasi per attenuare il fastidio. La formica, che le era entrata nell'orecchio, era tanto grande!, e pregava il nonno di liberarla dalla pena, che era tanto grande!
– Cávala, nonno!
Il nonno la confortò, già impietosito, ma senza timore. Si fece dare un fuscello a cui si appigliasse l'intrusa, ed estrarla. Nel dubbio però che fosse peggio, le disse:
– Non ci badare! Non è niente!
Anche a lui, mentre dormiva su l'erba, un giorno, era successo lo stesso; ma le formiche hanno giudizio, e, a non stuzzicarle, tornan fuori, riprendono l'andare.
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