Il suo raziocinio non s'era anche ficcato in quel ginepreto; sto per dire che gli occhi della sua mente non avevano ancora misurato il pericolo. Sentiva, non pensava per anco, o, per dire più veramente, i pensieri gli erravano ancora nel cervello, incerti, pallidi, senza contorni, sformandosi ad ogni tratto e in cento guise, a mo' di quelle fantastiche immagini che visitano i sogni dell'uomo, allorquando la febbre scorre nel sangue ed agita i polsi.
A toglierlo da quello stato, giunse in buon punto la voce di un famiglio. Veduto che il conte non pensava ad uscire, egli si era affacciato sul limitare, con la sua torcia in mano, per chiedergli se volesse ritirarsi nelle sue stanze.
– Ah! gli è vero! – disse Ugo, risovvenendosi dell'ora tarda e dell'esser solo oramai nella sala.
E portatasi una mano nei capegli, come per ravvivarli sulla fronte e cacciare nel tempo medesimo un importuno pensiero dal capo, conte Ugo s'innoltrò tra due file di servitori fino al suo appartamento.
– Era tardi davvero! – esclamò egli, vedendo nella camera innanzi alla sua il paggio Fiordaliso, che si era addormentato vestito daccanto al suo letticciuolo.
– Questo povero ragazzo non ha potuto aspettarmi più oltre. Svegliatelo, e ditegli che vada a letto e dorma a suo bell'agio, ch'io sono già nelle mie stanze e non ho bisogno di lui. —
Nel quale è detto di ciò che vide il conte Ugo guardando la torre del Negromante
Il giovine signore di Roccamàla, come fu giunto nella sua camera, licenziò i famigli e andò difilato verso il letto, superba mole di legno intagliato, con un largo padiglione di damasco rabescato, che era sorretto da quattro svelte colonne.
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