Anton Barrili - Tra cielo e terra - Romanzo

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– Ma sì, come bisogna essere in chiesa. O non ci si va, o ci si sta come si deve. Dopo tutto, non è la casa del nostro superiore? del grande ammiraglio, di quello, io voglio dire, che non commette ingiustizie? —

Capitolo III.

Cortesie di buon vicinato

Passarono tre giorni, che Maurizio occupò degnamente in cento piccole cure. Prima di tutto aveva da riconoscer la casa, dopo tanti anni d’assenza, da vedere tutte le novità che c’erano state fatte in quel lungo intervallo, il parco, il giardino, l’orto, il frutteto, la fagianaia, il pollaio, insomma tutto ciò che sua sorella Albertina aveva ordinato, o condotto a termine, o perfezionato, affinchè il Castèu, com’ella diceva, bastasse a sè stesso.

– Egregiamente; – notava Maurizio, approvando. – Credo che si potrebbe sostenere anche un anno d’assedio.

– Capisco che tu ci avresti tempo di annoiarti; – rispondeva Albertina.

– No, sai; tu coi tuoi polli e coi tuoi fagiani; io coi miei libri, le mie carte, i miei strumenti; si passerà il tempo benissimo, e il peggiore dei nemici non avrà modo di penetrare qua dentro. —

Maurizio aveva ricevuti da Ventimiglia i suoi bauli e le sue casse. Tutto era già stato aperto, schiodato, sciorinato; libri, carte geografiche, idrografiche, bussole, cannocchiali, seste, sestanti, cronometri, tutto il bagaglio scientifico dell’ufficiale di marina. Il legnaiuolo della casa era stato chiamato, e sotto la direzione di Maurizio lavorava ad aggiustare, ed aggiungere scaffali, a piantar chiodi e bullette, ad appender quadri, stampe, fotografie, armi, stoffe, amuleti, stoviglie, tutto il museo dell’ufficiale di marina che era stato anche un viaggiatore intelligente e curioso. Era quello un lavoro faticoso, ma gaio; e lo rendeva più gaio il pensiero della quiete futura, in cui Maurizio avrebbe potuto finalmente metter mano alla sua Storia delle Guerre marittime. Quella, davvero, non gli usciva di mente.

La mattina del quarto giorno, mentre era in maniche di camicia su d’una scala di legno appoggiata alla parete, gli fu portata da Giaume una lettera.

– Già la posta a dar noia! – esclamò egli, seccato.

Non era della posta; era una lettera del paese.

– Mettila là, su quella tavola. Chi l’ha portata?

– Il fattore della Balma.

– Ah! – disse Maurizio; e più non disse.

Com’ebbe finita l’operazione per cui si era inerpicato lassù, scese tranquillamente e andò a prender la lettera, che portava scritto sulla busta: «Al signor conte Maurizio Sospello di Vaussana; Sue mani», e sul rovescio un gran suggello di ceralacca, con lo stemma dei Matignon della Bourdigue. Maurizio prese con molta flemma una spatola d’avorio, ne introdusse delicatamente la punta sotto la piega della busta, ne tagliò tutto il lato superiore, trasse il foglio che c’era dentro ripiegato in due, lo spiegò lentamente e lesse ciò che gli scriveva il castellano della Balma:

“Signor Maurizio,

«Quando un ufficiale va in un paese e sa che c’è un altro ufficiale a lui superiore di grado, va a fargli una visita, non vi pare? Sarebbe prescritta l’uniforme; ma io non la esigo; anzi ve ne dispenso. Non vi dispenso però dalla visita. Andrei contro la legge, venendo io stesso da voi, se nella mia condizione di ospite non avessi qui cura d’anime. Vi ho conosciuto bambino, e credo anche di avervi in quei tempi consegnato qualche amorevole scappellotto. Non vi dispiacerà il ricordo, poichè desidero di mutarlo in una buona stretta di mano.

«Conoscete la via della Balma. Dieci minuti di salita, per gambe come le vostre, e al piè delle scale un vecchio amico a braccia aperte.

“Bourdigue.„

Maurizio lesse e sorrise; ripiegò il foglio, dopo avergli data ancora una rapida scorsa, lo rimise nella sua busta, e depose questa sulla tavola; dopo di che ritornò al suo lavoro. Alle dodici il legnaiuolo si congedò, per andarsene a desinare.

– Ripasserò alle due, signor conte; – diss’egli.

– No, per oggi basterà; – rispose Maurizio. – Ho da far altro; ritornerete domattina, all’ora solita. —

E anch’egli discese, dopo essersi messo in ordine, per andare ad asciolvere. Dopo il pasto mattutino, andò nelle sue stanze a mutar abiti.

– Vai fuori? – gli chiese Albertina, vedendolo così vestito di tutto punto.

– Sì, alla Balma. Vedi che cosa mi scrive il tuo generale. —

Così dicendo, porgeva ad Albertina la lettera che aveva ricevuta nella mattinata.

– È cortese; – osservò ella, dopo aver letto. – E gli sei proprio debitore di una visita. Io, anzi, te lo volevo dire fin da ier l’altro.

– Andiamo dunque, e perdiamo questa mezza giornata; – conchiuse egli sospirando.

E uscito dal Castèu, si avviò alla Balma; non dalla parte del paese, ma dalla parte della montagna, per la scorciatoia del bosco e della cascata, che ben ricordava, per averla fatta da ragazzo, almeno un centinaio di volte.

Rivedere i luoghi dove si è passata la prima adolescenza, dove non è per noi un ricordo che non sia lieto, è certamente bellissima tra tutte le cose belle della vita. Maurizio s’immerse in quella gioia così profonda, e nondimeno un pochettino chiassosa, che invade tutto il nostro essere, e trova ancor modo di espandersi in esclamazioni, in grida, in rotte parole, che vorrebbero diventar inni, ondate di poesia, e non riescono ad essere che sussulti, gorgogli, balbettamenti dell’anima. Si fermava un po’ da per tutto, vedendo e ricordando; ma più si trattenne davanti all’Aiga, alla bella cascata, con tutte quelle felci e quei muschi onde erano tappezzate le pareti dello scoglio, con quella rupe che sopraggiudicava l’abisso, con quel lastrone orizzontale, vero labro di granito, donde si precipitava il cristallino volume delle acque nella conca sottoposta, sprizzando in polvere liquida, estuando in candide spume, rompendosi in rivoli che tornavano a ricongiungersi più sotto in un solo zampillo. Maurizio non si sarebbe più spiccato di là, se non avesse pensato in buon punto che aveva da fare una visita d’obbligo, che per quella visita aveva congedato il legnaiuolo, interrompendo il suo piacevole lavoro, che per quella visita si era vestito di tutto punto e mosso di casa.

– Ci tornerò; – diss’egli ad alta voce, come per fare le scuse della sua fretta alla divinità del luogo.

Gli antichi avevano ben ragione a mettere delle dee per protettrici delle fonti. Non c’è cosa più poetica di una bell’acqua corrente nella solitudine di un bosco, nè altra che più meriti il sorriso di una divinità tutelare.

Maurizio si avviò finalmente; e non in dieci minuti, per verità, ma in trenta o quaranta giunse sotto al muro di cinta del castello della Balma. C’era un muro, e ci stava benissimo; tutti i castelli che si rispettano ne hanno uno, spesso più d’uno. Ma l’uscio per entrare? o la breccia? Maurizio rammentava benissimo che la breccia non mancava; non fatta da nemici, ma da contadini poco disposti a passare per la strada maestra. Quella breccia, ridotta a passo campestre, si ritrovava più su, dietro una svolta del muro.

– Per di qua; – gli disse dall’alto una voce. – Se andate alla Balma, c’è qui il sentiero.

– Lo so, grazie; – rispose Maurizio. – Conosco i luoghi da un pezzo. —

E salutava, così dicendo, il brav’uomo che gli dava l’avviso. Era un pastore, che se ne stava seduto su d’un masso, pascolando due mucche e una dozzina di pecore.

Trovato facilmente il passo, ed entrato nel recinto della Balma, il visitatore fu ben presto ad una piccola spianata, davanti a cui sorgeva la gradinata che metteva al portone d’ingresso. Non c’era nessuno alla vista, ma si sentivano voci di dentro; anzi, per dire più esattamente, si sentiva una voce sola, che faceva per quattro, rumorosa, allegra, voce di comando frammezzata di risa.

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