Anton Barrili - I rossi e i neri, vol. 1

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I rossi e i neri, vol. 1: краткое содержание, описание и аннотация

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Qual è l'uomo tra noi, il quale non abbia una o due di queste fisime in capo, mai discusse a mente tranquilla e sempre citate a guisa di assiomi! E non è a dire che manchi lo ingegno per discernere l'errore; ma gli è che certe cose, succhiate, stiamo per dire, col latte, rimangono nel cervello, come fondo di bottega, e l'occhio, avvezzo a vederle, non si ferma a discuterne il pregio.

Ora nessuno può fare ad Aloise il torto di credere che egli, con quello ingegno che aveva, se si fosse posto a meditare un tratto su quel dirizzone, non avrebbe durato fatica a scorgere le corna del pregiudizio. Per giungere a ciò sarebbe bastato il guardarsi d'attorno, nella gente del suo ceto, e considerare se tutti i suoi pari avevano quella scienza infusa, o quella innata nobiltà di sentire che gli pareva privilegio del nome patrizio.

Ma in fin dei conti, come si sarebbe potuto ragionevolmente domandare che Aloise facesse queste considerazioni, se lo storto concetto dell'universale non fa che aiutare a questa illusione? A Genova, come in molti luoghi, si fa di cappello ai milioni, anche quando non abbiano altre virtù che li rincalzino; ma a Genova, più che altrove, si fa di cappello al titolo di marchese, e a tutti i privilegi della nascita, non badando se siano posti su d'un uomo da nulla, come il mantello o la giubba sulle smilze grucce d'un attaccapanni.

Maniere di adorazione storte ambedue; laonde si può dire che se in altri luoghi il concetto della rivoluzione è stato volto a profitto dei ricchi, della gente nuova e dei subiti guadagni (per dirla con Dante), qui a Genova non ne è pur giunto un soffio, ed abbiamo accettato due maniere di aristocrazia, in cambio d'una.

Noi ripeteremo una cosa detta fin dal principio di questo racconto: amiamo i bei nomi quando sono ben portati, e null'altro. La nobiltà che noi intendiamo, è privilegio sempre difficile ad ottenersi; ma si ottiene per fermo con la mistura di questi tre ingredienti: onestà, ingegno e generosità di propositi. Sia patrizio o plebeo l'uomo posto in alto dalla riverenza dell'universale, se quelle virtù non soccorrono, povero a lui! nè le ricchezze sfondate, nè il fasto della cieca liberalità, possono farci dimenticare la sua pochezza d'intelletto e di cuore. E allora la carrozza stemmata, la coppia di leardi, o di sauri, superbamente attaccata, e la poveraglia più superbamente tenuta ad ornamento del portone di casa, ci fanno sorridere malinconicamente, come avviene per tant'altre miserie del mondo.

Questi pensieri abbiamo voluto dirveli, perchè li mettiate insieme con altri parecchi, e a noi si tolga il fastidio di doverci spiegare per lungo e per largo, sì quando avremo aria di lodare la nobiltà e la ricchezza, sì quando avremo aria di buttarle tra le ciarpe dei ferravecchi.

Ora torniamo ad Aloise. Le ricchezze del giovine marchese di Montalto erano più che modeste, e forse in questo senso il dottor Collini intendeva la frase detta a Lorenzo: «un tale che non ha il becco di un quattrino». Il fitto di alcune case poste in città gli dava un'entrata di forse ottomila lire. Palazzo non ne aveva, essendo la dimora cittadina de' suoi vecchi già da lunga pezza andata in mano d'altri, e gli rimaneva soltanto, inutile arnese, il palazzotto campestre della sua famiglia, posto in cima ad una di quelle tante gole di monti che fiancheggiano la Polcevera.

Si possono fare di molte cose, con otto mila lire, in una città come Genova. Si può, verbigrazia, avere una bella casetta, arredata con elegante semplicità, tenere due persone di servizio ed anche la balia in casa, se si è ammogliati e consolati di prole; ma in questo caso non c'è da pensare a sciali, bisognando stare per molt'altre cose a stecchetto. Ma si possono fare altresì poche cose con ottomila lire, quando non si abbia il conforto e le modeste costumanze della vita domestica. Abbiate un appartamento pulito in una delle vie principali; contentatevi di un solo servitore; andate a desinare alla Concordia; tenete uno scanno a teatro; fatevi vestire, o spogliare da un sarto di grido; siate socio al Casino, anche senza far altro che una partita a biliardo; rendete a tempo e luogo servizio ad un amico, e poi mi saprete dire dove si arrivi con ottomila lire d'entrata. All'uscita, non è vero? e senza troppo aspettare.

La casa di Aloise, in via Balbi, non era grande, ma bella e bene arredata. Il buon gusto del giovine si faceva notare in ogni cosa, e perfino nella disposizione delle suppellettili. Nella sala d'entrata erano pochi gli arredi, ottenendovi lo spazio maggiore una pedana per assalti di scherma, e tutti gli altri arnesi pertinenti a quell'uso. Da un lato, fermata alla parete, vedevasi una lavagna quadrata ed incorniciata, dove gli amici che venivano a cercar di Aloise e non lo trovavano in casa, potessero scrivere il nome o quello che loro piacesse meglio.

Da quella stanza si entrava in un salottino, vero esemplare di eleganza, parato di seta azzurrognola, coi mobili tutti dorati. Sulla spalliera del lettuccio da sedere e di tutte le seggiole, come sull'alto della cornice di uno specchio inclinato, era intagliato lo stemma dei Montalto, un leone coronato, rampante su d'uno scoglio, con la breve leggenda «__Altius__», ossia, per dirla in volgare, «più alto». Quegli arredi eleganti, e una Madonna attribuita al pennello del Dolci, che si vedeva di rincontro allo specchio, decoravano un tempo il salotto della madre di Aloise, e il giovinotto le serbava gelosamente come preziose reliquie di un caro passato.

Nella sala da studio, a sinistra del salotto, gli occhi erano abbarbagliati e rallegrati ad un tempo dal più pittoresco guazzabuglio. Anzitutto avevate a cansare una gran tavola rotonda, coperta con superba sprezzatura da un magnifico sciallo persiano, sulla quale erano posti, apparentemente a rinfusa, libri dalle carte dorate, sfere, mappamondi di porcellana, portasigari ed altri graziosi nonnulla, in mezzo ai quali regnava un telescopio, il quale, posto com'era, non aspettava altro che la notte e l'apertura della finestra, per ispecolare le stelle.

Più oltre, dopo la tavola, un pianoforte verticale, che mostrava le spalle al mezzo della camera e ad un divano turchesco, appoggiato alla parete di rincontro. A sinistra dell'uscio, tra la tavola rotonda e il divano, uno scrittoio, con tutto il bisognevole, e due statuette di porcellana del Giappone, le quali sorridevano allo scrittore, e in mancanza dello scrittore, alla seggiola sulla quale avrebbe potuto sedersi. Tutt'intorno poi, incisioni, mensole che sostenevano statuette di gesso, pipe con la canna di gelsomino, e via discorrendo.

Dall'altro lato del salotto, sollevando la portiera di seta, si vedeva la camera da letto; ma in questa non metteremo piede, contentandoci di restare, con maggior profitto per il nostro racconto, nella sala da studio, a sentire che cosa dicesse Aloise col marchesino Pietrasanta, aspettando che il servitore andasse a cercare una carrozza da nolo, per condurli a diporto.

Su quel divano turchesco, che abbiamo accennato, era seduto, anzi mezzo sdraiato il Pietrasanta, facendosi puntello del gomito alla persona, e chiudendo beatamente gli occhi ad ogni boccata di fumo che mandava fuori. Perchè, voi già l'avete indovinato, o lettori che indovinate ogni cosa, egli fumava; e noi vi aggiungeremo che fumava i due terzi del giorno, e un terzo delle seimila lire che gli dava il marchese padre per le sue male spese. Il che è quanto dire che fumava molto; non sigari di Avana, che si fabbricano a Malta, nè di Manilla, che si fabbricano ad Amburgo, ma sigarette turche, ed autentiche.

Enrico Pietrasanta era un buon giovine; in fondo nè carne, nè pesce, ma di ottima pasta. Non aveva mai fatto male ad alcuno; a parecchi aveva anzi reso servigio; amava il suo cavallo e si lasciava amare da una ballerina, aspettando che i suoi parenti gli scegliessero quella donna che avrebbe dovuto amare per tutta la vita; andava spesso a ragionare col sarto intorno alle nuove fogge della quindicina; non s'impacciava di politica, ma non poteva patire la compagnia del prete di casa e non parlava mai con irriverenza della rivoluzione, del progresso e degli uomini più chiari per le opere della penna o della spada a servizio della patria. Uomo insomma, che, con altro indirizzo, avrebbe potuto diventar utile alla sua terra, ma che, stretto d'ogni parte dalle consuetudini de' suoi pari, nè forte tanto da rompere il freno, si rassegnava a vivere inoperoso.

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