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Iain Banks: Canto di pietra

Здесь есть возможность читать онлайн «Iain Banks: Canto di pietra» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Parma, год выпуска: 1999, ISBN: 978-88-8246-095-2, издательство: Ugo Guanda, категория: Современная проза / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Iain Banks Canto di pietra

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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Mentre avanziamo, la luogotenente controlla l’interno della carrozza, scoprendo molte cose che la affascinano. Mi volto quando trova il portagioie, dietro i tuoi piedi; ti pieghi e lo stringi al petto ma lei lo afferra e vince la tua resistenza con uno sguardo dolcemente ammonitore, oltre che con una forza tanto maggiore. Esamina un gioiello alla volta, provandosene alcuni sul petto, attorno al polso o a un dito; poi scoppia a ridere e te li restituisce, a parte un piccolo anello d’oro bianco con un rubino.

«Questo posso tenerlo?» ti chiede. La carrozza sobbalza rumorosamente per una buca e devo tornare a guardare avanti; la tua testa è premuta contro la mia nuca mentre tiro le redini per tener lontane le cavalle da una fila di buche sulla strada. Sento che le fai cenno di sì.

«Grazie, Morgan», dice la luogotenente, e ha un’aria molto soddisfatta.

Da qualche minuto sembra addormentata (mi dai un colpetto sulla schiena per indicarmela, e c’è un sorrisetto sulle tue labbra mentre accenni alla sua testa penzoloni). Non ne sono sicuro; il viso della nostra luogotenente non mi sembra del tutto disteso, come succede a chi si addormenta per davvero. Forse ci sta sempre osservando e aspetta di vedere cosa faremo.

Comunque stessero le cose, adesso si raddrizza, si guarda intorno, chiede dove siamo ed estrae dalla giacca una piccola radio. L’avvicina alla bocca, parla brevemente e i camion davanti grugniscono e si fermano sulla strada sterrata. Avanzo con la carrozza fino a raggiungerli; la jeep ronza in folle alle nostre spalle. Mancherà mezzo chilometro all’inizio del viale del castello, nascosto oltre una curva dietro gli scheletri umidi e scuri degli alberi.

«C’è una portineria?» mi chiede sottovoce la luogotenente. Faccio cenno di sì con la testa.

«C’è qualche altra strada per evitare la portineria?»

«Non per i camion», le rispondo.

«E con la jeep?»

«Credo di sì.»

Si alza di scatto, scuotendo la carrozza, si tocca il berretto rivolta a te e fa un cenno a me. «Ci guiderà lei. Prenderemo la jeep.» Mi rivolgi un’occhiata spaventata e stendi la mano verso di me. «Rotula», dice la nostra luogotenente a uno degli uomini sulla jeep. «Da’ un’occhiata ai cavalli.»

La luogotenente dà ordini che non sento agli uomini sui camion, poi salta sulla jeep e si mette al volante. Il soldato seduto accanto a lei tiene in mano un tubo verde oliva lungo circa un metro e mezzo. Immagino sia un lanciarazzi. Sono schiacciato sul sedile posteriore tra il treppiede metallico della mitragliatrice e un soldato pallido e grasso che puzza come una volpe morta da una settimana. Dietro di noi, all’estremità del veicolo, è accosciato il soldato che regge la pesante mitragliatrice.

Prendiamo lo stretto sentiero che penetra nella foresta, sul retro della proprietà, alle spalle della piccola scarpata bordata da sempreverdi gocciolanti. In alcuni punti gli alberi e gli arbusti formano una specie di tunnel sopra il sentiero e il soldato che impugna la mitragliatrice impreca sottovoce abbassandosi di scatto mentre i rami si impigliano nell’arma e tentano di strapparla alla sua presa. Il sentiero si avvicina al torrente che alimenta il fossato. Il ponte è marcio, con le travi sghembe, troppo fragile per reggere il peso della jeep. La luogotenente si volta verso di me e uno sguardo deluso comincia a formarsi sul suo viso.

«Ormai siamo vicini», le dico, tenendo la voce bassa. Accenno con la testa. «Da quella cresta la vista è libera.»

La luogotenente segue il mio sguardo, poi dice al soldato con la mitragliatrice: «Karma, prendi il mitra. Andiamo».

Si direbbe che conti anche me. Abbandoniamo la jeep e noi cinque — io e la luogotenente, l’uomo con il lanciarazzi, il soldato pallido e grasso e quello che ha chiamato Karma, che si carica la mitragliatrice e vari cinturoni di munizioni, direi molto pesanti — attraversiamo il ponte e montiamo sul ripido argine all’altra estremità. Dall’alto, attraverso i cespugli, si vede il castello, insieme ai giardini più vicini. La luogotenente estrae un binocolo da campo e lo punta sulla nostra casa.

Siamo sorpresi da un breve scroscio di pioggia; le gocce brillano negli ultimi raggi di sole che s’infilano sotto le nuvole provenienti da nord. Guardo la mia casa, avvolta da un sudario dorato di vento e pioggia, cercando di vederla come la vedrebbe un estraneo: una modesta fortificazione, nulla di imponente; levigata dal tempo, graziosamente circondata da un anello d’acqua e poi da prati, siepi, sentieri di ghiaia e costruzioni secondarie. Le antiche mura — in origine traforate solo da feritoie, da molto tempo ormai trasformate in finestre più generose — hanno il colore del miele, in quella luce rosata. Ha un’aria pacifica; eppure, nonostante la sua finezza architettonica, è sempre qualcosa di troppo forte per questi tempi brutali e irrispettosi.

In mezzo a tale indiscriminata barbarie, tutto ciò che spicca orgoglioso reclama di essere demolito, come un grido di sfida che non fa altro che attrarre ancor più rapidamente le mani alla gola, quelle mani che strozzano il filo d’aria dal quale dipende la nostra vita. L’unico modo di tirare avanti, in questi tempi sfrenati, è cedere alla banalità e alla svalutazione; nell’uniformità, se non nelle uniformi, come quella schiera di sfollati della quale abbiamo provato a far parte. Talvolta l’inchino più profondo è la protezione più sicura.

Per il momento, tutto è tranquillo al castello; non si leva del fumo, non ci sono figure che pattugliano la merlatura, non sventola nessuna bandiera, non brilla nessuna luce, nulla si muove. C’è ancora qualche tenda sul prato; gente del villaggio che aveva subito le attenzioni di bande armate e aveva pensato che la vicinanza del castello potesse garantire una maggiore protezione. Solo da lì proviene un po’ di fumo.

Credo che il castello non mi sia mai sembrato bello come adesso, nonostante una banda di pirati se ne sia impadronita e io sia obbligato ad aiutare un’altra banda, ancor più decisa, a occuparlo.

Il terreno intorno è un’altra questione; anche prima dei danni inferti dai nostri eterogenei senzatetto — alberi tagliati per far legna, latrine scavate nei prati — i campi, i boschi e il parco erano incolti, abbandonati a se stessi. Abbiamo perso due anni fa il nostro fattore, e io — che mi ero occupato sempre alla lontana dell’amministrazione della tenuta — non sono riuscito a prendere il suo posto. Da allora, uno alla volta, tutti gli altri lavoranti sono stati portati via dalla guerra, in un modo o nell’altro, e la natura, non più dominata, ha rinnovato la sua antica autorità sulle nostre terre.

«Là, vicino alle stalle», sussurra la luogotenente, appena sopra il rumore delle gocce che picchiettano sulle foglie attorno a noi. «Quei due fuoristrada.»

«Sono nostri», le dico. Li abbiamo lasciati lì, senza nemmeno chiudere a chiave le stalle, sapendo che ogni tentativo di proteggere qualcosa non avrebbe portato che a danni peggiori. «Però le porte spalancate non le abbiamo lasciate noi.»

«Quella costruzione con le assicelle sui lati, dietro i garage», dice la luogotenente. «È la cabina del generatore?»

«Sì.»

«C’è combustibile per alimentarlo?» Mi rivolge uno sguardo carico di speranza.

Solo sotto la carrozza. «Il serbatoio è a secco dal mese scorso», le dico, ed è quasi vero. Per risparmiare gli ultimi fusti di gasolio, abbiamo usato candele per l’illuminazione e il fuoco nei camini per scaldarci; anche le stufe delle cucine funzionano a legna. C’erano anche lampade e fornelli a propano, ma abbiamo consumato l’ultima ricarica ieri sera, prima di partire.

«Mmm», dice la nostra luogotenente, mentre il soldato accanto a lei la tocca con il gomito e indica qualcosa. Vediamo un uomo — un altro irregolare, per quello che vedo — che esce dalle stalle, mette un bidone sul cassone di uno dei fuoristrada e poi lo mette in moto, portandolo davanti al castello, lontano dalla nostra vista.

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