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Iain Banks: La fabbrica degli orrori

Здесь есть возможность читать онлайн «Iain Banks: La fabbrica degli orrori» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Roma, год выпуска: 1996, ISBN: 88-347-0522-X, издательство: Fanucci, категория: Современная проза / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Iain Banks La fabbrica degli orrori

La fabbrica degli orrori: краткое содержание, описание и аннотация

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Frank Cauldhame, il diciassettenne protagonista della , è uno dei personaggi più cattivi della letteratura, non solo contemporanea. Frank uccide: a sangue freddo, minuscoli insetti e innocenti bambini. Frank odia: il padre, ex hippy con manie da scienziato pazzo; la madre, che lo ha abbandonato subito dopo averlo messo al mondo; tutte le donne, quasi tutti gli uomini e la maggior parte degli animali. Ha un fratello, maniaco incendiario appena uscito dal manicomio (le cui vittime preferite sono i cani). E ha un amico, Jamie il nano, con cui beve birra al pub. Frank non piace a nessuno e nessuno piace a lui, in realtà non piace nemmeno a se stesso, e sull’isolotto scozzese sul quale vive da recluso vive una vita scandita da complessi rituali, plasmati sulla base di una personalissima religione… Una favola inquietante di «educazione alla violenza», un romanzo micidiale che mescola l’universo giovanile a un immaginario allucinato al limite dell’incubo.

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«Qui.»

«Se siamo tutti e due qui perché ci affanniamo al telefono?»

«Dimmi dove sei prima che finiscano le monete.»

«Ma se sei qui dovresti saperlo. Non sai dove sei?» Cominciò a ridacchiare.

Dissi con calma: «Smettila di fare lo scemo, Eric».

«Non sto facendo lo scemo. Non te lo dico dove sono. Tu lo diresti ad Angus e lui lo direbbe alla Polizia e quelli mi riporterebbero in quel merdoso ospedale.»

«Smettila di dire sempre parole-di-quattro-lettere. Lo sai che non mi va. Certo che non lo dico al babbo.»

«M-e-r-d-o-s-o non è una parola-di-quattro-lettere. È di sette lettere. Non è il sette il tuo numero fortunato?»

«No. Insomma, mi vuoi dire dove sei? Voglio saperlo.»

«Ti dico dove sono se tu mi dici qual è il tuo numero fortunato.»

«Il mio numero fortunato è P.»

«Ma non è un numero. È una lettera.»

«Invece lo è. È un numero trascendentale: 2,718.»

«Mi stai fregando. Io intendevo un numero intero.»

«Dovevi spiegarti meglio» dissi io, e tirai un sospiro quando sentii il bip-bip, ma Eric mise dentro altri soldi. «Vuoi che ti richiami?»

«Oh, oh. Non me lo tirerai fuori tanto facilmente. In ogni caso, come stai?»

«Sto bene. E tu?»

«Sto bene da matti, naturalmente» disse sdegnato. Mi scappò un sorriso.

«Ascolta, suppongo che tu stia tornando qui. Se è vero, per favore non bruciare né cani né altro, va bene?»

«Ma di cosa stai parlando? Sono io. Eric. Io non brucio nessun cane!» Cominciò a urlare. «Non ne brucio di cani di merda! Ma per chi diavolo mi hai preso? Non accusarmi di bruciare cani di merda, bastardo che non sei altro! Bastardo!»

«Va bene, Eric, scusami, scusami» dissi io più in fretta che potevo. «Voglio solo che tu stia bene. Stai attento. Non fare nulla per inimicarti la gente, va bene? La gente sa essere molto sensibile…»

«Allora…» Lo sentii respirare, poi la sua voce cambiò. «Già, sto tornando a casa. Solo per un po’, per vedere come state voi due. Ci siete solo tu e il vecchio, vero?»

«Sì, solo noi due. Non vedo l’ora di incontrarti.»

«Oh, bene.» Ci fu una pausa. «Perché non venite mai a trovarmi?»

«Pensavo… Pensavo che nostro padre fosse venuto a trovarti a Natale.»

«Ah, sì? Sì, ma… tu perché non vieni mai?» chiese con tono lamentoso. Spostai il peso del corpo da una gamba all’altra, diedi un’occhiata attorno, al pianerottolo e su per le scale, aspettandomi quasi di vedere mio padre appoggiato alla ringhiera, o di vedere la sua ombra sul muro, al piano di sopra, dove si nascondeva di solito per origliare le mie telefonate.

«Non mi va di stare via dall’isola per tanto tempo, Eric. Mi spiace, ma provo una sensazione orrenda allo stomaco, come un nodo. Proprio non ci riesco ad allontanarmi, a stare via la notte… Non ce la faccio proprio. Ho voglia di vederti, ma tu stai così lontano.»

«Ma ora mi sto avvicinando.» Aveva ripreso un tono sicuro.

«Bene, quanto disti da qui?»

«Non te lo dico.»

«Io ti ho detto il mio numero fortunato.»

«Ti ho mentito. Non ho nessuna intenzione di dirti dove sono.»

«Ma non…»

«Senti, adesso riattacco.»

«Non vuoi parlare col babbo?»

«Non ancora. Gli parlerò più in là, quando sarò molto più vicino. Ora devo andare. Ci vediamo. Riguardati.»

«Sei tu che devi riguardarti.»

«Di che ti preoccupi? Andrà tutto bene. Cosa vuoi che mi succeda?»

«Non fare nulla che possa infastidire la gente. Mi hai capito. Cioè, quelli diventano furiosi. Soprattutto quando si tratta delle loro bestiole. Cioè, io non…»

«Cosa? Che cosa? Cos’è questa storia delle bestiole?» urlò.

«Niente! Stavo solo dicendo…»

«Sei una merda!» gridò. «Mi stai ancora accusando di dare fuoco ai cani, vero? E ficco anche vermi e larve in bocca ai mocciosi e ci piscio sopra, eh?»

«Adesso che lo dici…» dissi cautamente, giocherellando col filo.

«Bastardo! Bastardo! Sei una merda! Ti ucciderò! Sei…» La voce scomparve, e dovetti di nuovo allontanare il ricevitore dall’orecchio perché stava cominciando a sbattere la cornetta sulle pareti della cabina. Il suono ripetuto di quel rumore era così forte da coprire quello del bip-bip che indicava che le monete erano finite. Riattaccai.

Guardai in alto, ma di mio padre non c’era ombra. Strisciai su per le scale e infilai la testa nella ringhiera, ma il pianerottolo era vuoto. Tirai un sospiro e mi misi a sedere sugli scalini. Mi sembrava di non aver trattato Eric al telefono come avrei dovuto. Non mi viene tanto bene trattare con la gente, e, anche se Eric è mio fratello, sono più di due anni che non lo vedo, da quando è impazzito.

Mi alzai e tornai giù in cucina per chiudere a chiave e prendere il mio arnese, poi andai in bagno. Decisi di guardare la tv nella mia stanza, o di sentire la radio, e di andare a dormire presto in modo da poter essere in piedi subito dopo l’alba per catturare una vespa per la Fabbrica.

Mi sdraiai sul letto ad ascoltare John Peel alla radio e il rumore del vento intorno alla casa e quello della risacca sulla spiaggia. Da sotto il letto la mia birra fatta in casa faceva odore di fermentato.

Pensai ancora ai Pali Sacrificali. Più lentamente, questa volta, immaginandomeli uno per uno, cercando di ricordarmi la posizione e ogni singola componente, rivedendo con la mente ciò che quegli occhi senza vista stavano a sorvegliare. Scorrevo ogni immagine come fa un guardiano che passa da una telecamera all’altra su un monitor a circuito chiuso. Ebbi la sensazione che nulla andasse di traverso. Sembrava tutto a posto. Le sentinelle morte, quelle estensioni del mio corpo che cadevano in mio potere attraverso la resa semplice ma definitiva della morte, non avvertivano nulla che potesse far del male a me o all’isola.

Aprii gli occhi e riaccesi la lampada del comodino. Mi guardai nello specchio che sta sul tavolo dalla parte opposta della stanza. Stavo sopra alle coperte, in mutande.

Ho un po’ di ciccia di troppo. Niente di grave, e poi non è colpa mia, comunque non ho l’aspetto che mi piacerebbe avere. Pingue, ecco come sono. Forte e in buona salute, ma ancora un po’ in sovrappeso. Vorrei incutere cupo timore. L’aspetto che normalmente avrei avuto, che avrei dovuto avere, che avrei potuto avere se non avessi avuto quel piccolo incidente. A guardarmi non si direbbe che ho ucciso tre persone. E la cosa non mi piace.

Spensi di nuovo la luce. La stanza era immersa nel buio, non c’era neanche la luce delle stelle mentre gli occhi si abituavano all’oscurità. Forse dovrei procurarmi una di quelle radiosveglie a cristalli liquidi, anche se non mi separerei mai dalla mia vecchia sveglia di ottone. Una volta ho legato una vespa al piano di battuta delle campanelle color rame che stanno in cima alla sveglia, nel punto in cui, la mattina dopo, il martelletto le avrebbe colpite quando fosse scattata la suoneria.

Mi sveglio sempre prima che la sveglia suoni. E così ho potuto assistere alla scena.

2. Il Parco del Serpente

Presi il mucchietto di cenere — quel che restava della vespa — e lo misi in una scatola di fiammiferi, avvolgendolo in una vecchia fotografia di Eric con mio padre. Nell’immagine mio padre teneva in mano una foto formato tessera della sua prima moglie, la madre di Eric, e lei era l’unica a sorridere. Mio padre fissava l’obiettivo con un’espressione cupa. Il piccolo Eric guardava lontano mentre si puliva il naso, con aria annoiata.

La mattina era fresca, fredda. C’era foschia sui boschi ai piedi delle montagne, e nebbia in lontananza verso il Mare del Nord. Mi misi a correre forte e agile sulla sabbia bagnata, dalla parte più compatta, con la borsa e il binocolo stretti lungo i fianchi, facendo con la bocca come un rumore d’aereo. All’altezza del Bunker virai verso l’interno, rallentando man mano che, risalendo su per la spiaggia, calpestavo la sabbia bianca e soffice. Diedi un’occhiata ai relitti e alle cianfrusaglie mentre ci passavo sopra, ma non c’era niente di interessante, niente che valesse la pena recuperare, solo una medusa, una massa consunta e violacea con quattro anelli sbiaditi al centro. Cambiai leggermente tragitto per scavalcarla, facendo «Trrrrrfffaow! Trrrrrrrrrrrfffaow!» e dandole un calcio senza smettere di correre, tanto da far scoppiare intorno a me una fontana lurida di sabbia e gelatina. «Puchrrt!» fu il rumore dell’esplosione. Feci un’altra virata e mi diressi al Bunker.

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