Iain Banks - La fabbrica degli orrori

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La fabbrica degli orrori: краткое содержание, описание и аннотация

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Frank Cauldhame, il diciassettenne protagonista della
, è uno dei personaggi più cattivi della letteratura, non solo contemporanea. Frank uccide: a sangue freddo, minuscoli insetti e innocenti bambini. Frank odia: il padre, ex hippy con manie da scienziato pazzo; la madre, che lo ha abbandonato subito dopo averlo messo al mondo; tutte le donne, quasi tutti gli uomini e la maggior parte degli animali. Ha un fratello, maniaco incendiario appena uscito dal manicomio (le cui vittime preferite sono i cani). E ha un amico, Jamie il nano, con cui beve birra al pub. Frank non piace a nessuno e nessuno piace a lui, in realtà non piace nemmeno a se stesso, e sull’isolotto scozzese sul quale vive da recluso vive una vita scandita da complessi rituali, plasmati sulla base di una personalissima religione…
Una favola inquietante di «educazione alla violenza», un romanzo micidiale che mescola l’universo giovanile a un immaginario allucinato al limite dell’incubo.

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«Perché l’hai fatto?» disse Jamie, ancora ansimante.

Gli feci un cenno, armeggiando con la cintura. Stavo per sentirmi male di nuovo, inalando zaffate di fumo dai vestiti impregnati.

«Mi d-disp…» stavo cominciando a dire che mi dispiaceva, ma le parole mi si trasformarono in un conato. La parte malsana del mio cervello pensò improvvisamente alle uova con la pancetta unta di grasso e di nuovo il mio stomaco ebbe uno sbuffo. Mi piegai in due, col ventre squassato dai conati, e sentii le budella contrarsi come se avessi un malloppo in corpo, qualcosa di vivo, indipendentemente dalla mia volontà. Mi sentivo come penso che debba sentirsi una donna incinta con un bambino dentro che scalcia. La gola mi raspava con la forza di un motore d’aereo. Jamie mi raccolse mentre stavo per cadere. Rimasi lì come un coltello a serramanico mezzo aperto, schizzando tutt’intorno il cortile. Jamie mi cacciò una mano attorno alla vita per non farmi cadere di faccia, e mi tenne con l’altra mano la fronte, borbottando qualcosa. Continuai a dare di stomaco; cominciavo a stare veramente male. Gli occhi mi si erano riempiti di lacrime, mi colava il naso e la testa me la sentivo come un pomodoro maturo, pronta a scoppiare. Lottavo per prendere fiato tra un conato e l’altro, e intanto buttavo giù grumi di vomito e tossivo e contemporaneamente sputavo. Mi sentivo emettere rumori orribili, come quelli che faceva Eric al telefono in preda alle sue follie, e speravo che nessuno passasse in quel momento, che nessuno mi vedesse in quello stato indegno e indifeso. Mi fermai, per un attimo credetti di sentirmi meglio, poi ricominciai a muovermi e mi sentii dieci volte peggio. Mi spostai da una parte, con Jamie che mi aiutava, e mi misi bocconi in un angolo relativamente pulito del selciato, dove c’erano le macchie di grasso più vecchie. Tossii e sputacchiai, con lo stomaco che mi sobbalzava ripetutamente in gola, poi caddi all’indietro tra le braccia di Jamie, stringendomi le gambe al petto per alleviare i dolori ai muscoli gastrici.

«Meglio, adesso?» disse Jamie. Annuii. Mi piegai in avanti, in modo da sedermi sui talloni, con la testa tra le ginocchia. Jamie mi incoraggiava. «Aspetta un attimo, Frankie.» Lo sentii allontanarsi e tornare dopo pochi secondi. Aveva preso dei ruvidi pezzi di scottex dal rotolo del distributore. Mi asciugò la bocca con uno strappo, il resto del viso con un altro. Poi li raccolse e li buttò nell’immondizia.

Anche se ero ancora in preda ai fumi dell’alcol e avevo dei dolori atroci allo stomaco, anche se la gola me la sentivo come se due porcospini ci stessero facendo a botte dentro, stavo molto meglio. «Grazie» riuscii ad articolare, e cominciai a fare dei tentativi per mettermi in piedi. Jamie mi aiutò a tirarmi su.

«Cristo, ma in che stato ti riduci, Frank!»

«Mm» dissi, strofinandomi gli occhi con la manica e guardandomi attorno per vedere se eravamo ancora soli. Diedi un paio di pacche sulla spalla a Jamie e ci dirigemmo verso la strada.

Percorremmo la strada deserta, io respiravo profondamente e Jamie mi teneva per un gomito. La ragazza se n’era andata, c’era da aspettarselo, ma a me non dispiaceva per niente.

«Perché te ne sei scappato a quel modo?»

Scossi la testa. «Avevo bisogno.»

«Che?» disse Jamie ridendo. «Perché non l’hai detto?»

«Non potevo.»

«Solo perché c’era la ragazza?»

«No» dissi, e tossii. «Non potevo parlare. Ero troppo fuori.»

«Eh?» rise ancora Jamie.

Feci un cenno di assenso. «Già» dissi. Jamie continuò a ridere e scosse la testa. Proseguimmo il nostro cammino.

La madre di Jamie era ancora in piedi, così ci fece una tazza di tè. È un donnone che porta sempre la stessa vestaglia verde ogni volta che la vedo, cioè quelle sere che dopo il pub io e Jamie finiamo a casa sua, cosa che avviene piuttosto spesso. Non è troppo scortese, anche se finge di apprezzarmi molto più di quanto io so che in realtà mi apprezzi.

«Ehi, ragazzino, non hai una gran bella cera. Qua, siediti che ti faccio subito subito un po’ di tè. Povero piccolo!» Non mi mossi di un millimetro dalla sedia del soggiorno intanto che Jamie appendeva le giacche. Lo sentivo saltellare nell’ingresso.

«Grazie» gracchiai, con la gola secca.

«Ecco a te, cucciolotto. Vuoi che alzi il riscaldamento? Hai freddo?»

Scossi la testa, e lei sorrise e mi fece un cenno col capo e mi diede una pacca sulla spalla e sgattaiolò in cucina. Jamie arrivò e si mise a sedere sul divano, accanto alla mia sedia. Mi guardò, mi fece un ghigno e scosse la testa.

«In che stato! In che stato!» disse sbattendo le mani e sbilanciandosi in avanti, coi piedi dritti davanti a lui. Io roteai gli occhi e guardai da un’altra parte. «Non ti preoccupare, Frankie, amico mio. Un paio di tazze di tè e starai bene.»

«Ummf» riuscii a dire, con un brivido.

Andai via verso l’una, l’ubriachezza era calata e le viscere mi scoppiavano per tutto il tè che avevo ingurgitato. Lo stomaco e la gola erano tornati quasi a posto, anche se avevo ancora la voce impastata. Diedi la buonanotte a Jamie e alla madre e mi avviai verso la periferia del paese, dirigendomi verso il sentiero che porta all’isola. Percorsi il sentiero al buio, ogni tanto lo illuminavo con la torcia, e mi diressi alla volta del ponte, verso casa.

Fu una passeggiata tranquilla attraverso le paludi, le dune e la campagna. A parte i pochi rumori che facevo camminando, altro non sentivo che il rombo lontano e sporadico dei camion che attraversavano il paese. Il cielo era quasi completamente ricoperto dalle nuvole, e la luna faceva poca luce, e non c’era nessuno intorno a me.

Mi ricordo che una volta, era l’estate di due anni fa, mentre scendevo per il sentiero a tramonto inoltrato dopo una giornata in giro per le colline, vidi delle strane luci nel buio che iniziava a calare, delle luci che slittavano nell’aria e sovrastavano l’isola. Si agitavano e si muovevano in modo inquietante, scintillavano, si spostavano, bruciavano come se fossero solide e pesanti, non sembrava che si stessero muovendo nell’aria. Mi fermai a guardarle per un po’, puntandoci sopra il mio binocolo. Per un istante, tra le immagini cangianti disegnate dalla luce, mi sembrò di scorgere qualche forma. Un brivido mi percorse allora le membra, e la mia mente cercò con tutte le sue forze di ragionare e capire cosa stessi vedendo. Lanciai un’occhiata veloce verso l’oscurità e poi mi voltai ancora verso quelle torri mute e lontane di fiamme traballanti. Erano sospese nel cielo come volti di fuoco che guardassero verso l’isola, come se stessero aspettando.

Allora mi venne in mente una cosa, e capii.

Un miraggio, un riflesso che si propagava dall’acqua del mare all’aria. Stavo guardando le fiammate gassose delle piattaforme petrolifere a centinaia di chilometri di distanza, nel Mare del Nord. Tornando con lo sguardo alle forme che avvolgevano le luci, mi accorsi che erano le piattaforme stesse, che si stagliavano sfumate contro il proprio bagliore gassoso. La cosa mi rallegrò, mi rese ancora più felice di quanto lo fossi prima di scorgere le strane apparizioni, e mi venne in mente che magari qualcuno che avesse avuto meno immaginazione di me, e che nello stesso tempo fosse stato meno razionale, sarebbe giunto alla conclusione di aver visto degli UFO.

Alla fine arrivai all’isola. La casa era immersa nell’oscurità. Rimasi a guardarla al buio, appena consapevole della sua presenza fisica sotto i fievoli raggi di una luna spezzata, e pensai che sembrava più grande di quello che in realtà era. Pareva la testa di un gigante di pietra, un imponente teschio che alla luce della luna mostrasse le sue forme e i suoi ricordi, con lo sguardo fisso verso il mare, attaccato a un corpo grosso e potente sepolto nella roccia e nella pietra, pronto a scrollarsi, a liberarsi, a disseppellirsi a qualche misterioso comando o segnale. La casa guardava fisso verso il mare, verso la notte, e io ci entrai.

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