Луиджи Пиранделло - Il fu Mattia Pascal / Покойный Маттиа Паскаль. Книга для чтения на итальянском языке

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Il fu Mattia Pascal / Покойный Маттиа Паскаль. Книга для чтения на итальянском языке: краткое содержание, описание и аннотация

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Предлагаем вниманию читателей самый известный роман знаменитого итальянского писателя и драматурга Луиджи Пиранделло. Обстоятельства жизни героя складываются неудачно для него, и он решает исчезнуть. Выиграв в казино приличные деньги, он уезжает из родного города в Рим и начинает жить под новым именем. Все считают его умершим, а он пытается начать новую жизнь, но стать по-настоящему свободным ему не удается, он разрывается между собой реальным и собой выдуманным… Книга адресована студентам филологических факультетов и всем любителям и знатокам итальянской литературы.

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«Chi sa quanto avrà perduto questo povero uomo!»

Mi aspettavo di meglio, dico la verità. L’ingresso, sì, non c’è male; si vede che hanno avuto quasi l’intenzione d’innalzare un tempio alla Fortuna, con quelle otto colonne di marmo. Un portone e due porte laterali. Su queste era scritto Tirez: e fin qui ci arrivavo; arrivai anche al Poussez del portone, che evidentemente voleva dire il contrario; spinsi ed entrai.

Pessimo gusto! E fa dispetto. Potrebbero almeno offrire a tutti coloro che vanno a lasciar lì tanto denaro la soddisfazione di vedersi scorticati in un luogo men sontuoso e più bello. Tutte le grandi città si compiacciono adesso di avere un bel mattatojo per le povere bestie, le quali pure, prive come sono d’ogni educazione, non possono goderne. È vero tuttavia che la maggior parte della gente che va lì ha ben altra voglia che quella di badare al gusto della decorazione di quelle cinque sale, come coloro che seggono su quei divani, giro giro, non sono spesso in condizione di accorgersi della dubbia eleganza dell’imbottitura.

Vi seggono, di solito, certi disgraziati, cui la passione del giuoco ha sconvolto il cervello nel modo più singolare: stanno lì a studiare il così detto equilibrio delle probabilità, e meditano seriamente i colpi da tentare, tutta un’architettura di giuoco, consultando appunti su le vicende de’ numeri: vogliono insomma estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre; e son sicurissimi che, oggi o domani, vi riusciranno.

Ma non bisogna meravigliarsi di nulla.

– Ah, il 12! il 12! – mi diceva un signore di Lugano, pezzo d’omone, la cui vista avrebbe suggerito le più consolanti riflessioni su le resistenti energie della razza umana. – Il 12 è il re dei numeri; ed è il mio numero! Non mi tradisce mai! Si diverte, sì, a farmi dispetti, magari spesso; ma poi, alla fine, mi compensa, mi compensa sempre della mia fedeltà.

Era innamorato del numero 12, quell’omone lì, e non sapeva più parlare d’altro. Mi raccontò che il giorno precedente quel suo numero non aveva voluto sortire neppure una volta; ma lui non s’era dato per vinto: volta per volta, ostinato, la sua posta sul 12; era rimasto su la breccia fino all’ultimo, fino all’ora in cui i croupiers annunziano:

– Messieurs, aux trois dernier!

Ebbene, al primo di quei tre ultimi colpi, niente; niente, neanche al secondo; al terzo e ultimo, pàffete: il 12.

– M’ha parlato! – concluse, con gli occhi brillanti di gioja. – M’ha parlato!

È vero che, avendo perduto tutta la giornata, non gli eran restati per quell’ultima posta che pochi scudi; dimodoché, alla fine, non aveva potuto rifarsi di nulla. Ma che gl’importava? Il numero 12 gli aveva parlato!

Sentendo questo discorso, mi vennero a mente quattro versi del povero Pinzone, il cui cartolare de’ bisticci col seguito delle sue rime balzane, rinvenuto durante lo sgombero di casa, sta ora in biblioteca; e volli recitarli a quel signore:

Ero già stanco di stare alla bada della Fortuna. La dea capricciosa dovea pure passar per la mia strada.

E passò finalmente. Ma tignosa.

E quel signore allora si prese la testa con tutt’e due le mani e contrasse dolorosamente, a lungo, tutta la faccia.

Lo guardai, prima sorpreso, poi costernato.

– Che ha?

– Niente. Rido, – mi rispose.

Rideva così! Gli faceva tanto male, tanto male la testa, che non poteva soffrire lo scotimento del riso.

Andate a innamorarvi del numero 12!

Prima di tentare la sorte – benché senz’alcuna illusione – volli stare un pezzo a osservare, per rendermi conto del modo con cui procedeva il giuoco.

Non mi parve affatto complicato, come il mio opuscolo m’aveva lasciato immaginare.

In mezzo al tavoliere, sul tappeto verde numerato, era incassata la roulette. Tutt’intorno, i giocatori, uomini e donne, vecchi e giovani, d’ogni paese e d’ogni condizione, parte seduti, parte in piedi, s’affrettavano nervosamente a disporre mucchi e mucchietti di luigi e di scudi e biglietti di banca, su i numeri gialli dei quadrati; quelli che non riuscivano ad accostarsi, o non volevano, dicevano al croupier i numeri e i colori su cui intendevano di giocare, e il croupier, subito, col rastrello disponeva le loro poste secondo l’indicazione, con meravigliosa destrezza; si faceva silenzio, un silenzio strano, angoscioso, quasi vibrante di frenate violenze, rotto di tratto in tratto dalla voce monotona sonnolenta dei croupiers:

– Messieurs, faites vos jeux!

Mentre di là, presso altri tavolieri, altre voci ugualmente monotone dicevano:

Le jeu est fait! Rien ne va plus!

Alla fine, il croupier lanciava la pallottola sulla roulette:

«Tac tac tac…»

E tutti gli occhi si volgevano a lei con varia espressione: d’ansia, di sfida, d’angoscia, di terrore. Qualcuno fra quelli rimasti in piedi, dietro coloro che avevano avuto la fortuna di trovare una seggiola, si sospingeva per intravedere ancora la propria posta, prima che i rastrelli dei croupiers si allungassero ad arraffarla.

La boule, alla fine, cadeva sul quadrante, e il croupier ripeteva con la solita voce la formula d’uso e annunziava il numero sortito e il colore.

Arrischiai la prima posta di pochi scudi sul tavoliere di sinistra nella prima sala, così, a casaccio, sul venticinque; e stetti anch’io a guardare la perfida pallottola, ma sorridendo, per una specie di vellicazione interna, curiosa, al ventre.

Cade la boule sul quadrante, e:

– Vingtcinq! – annunzia il croupier. – Rouge, impair et passe! Avevo vinto! Allungavo la mano sul mio mucchietto multiplicato, quanto un signore, altissimo di statura, da le spalle poderose troppo in sù, che reggevano una piccola testa con gli occhiali d’oro sul naso rincagnato, la fronte sfuggente, i capelli lunghi e lisci su la nuca, tra biondi e grigi, come il pizzo e i baffi, me la scostò senza tante cerimonie e si prese lui il mio denaro.

Nel mio povero e timidissimo francese, volli fargli notare che aveva sbagliato – oh, certo involontariamente!

Era un tedesco, e parlava il francese peggio di me, ma con un coraggio da leone: mi si scagliò addosso, sostenendo che lo sbaglio invece era mio, e che il denaro era suo.

Mi guardai attorno, stupito: nessuno fiatava, neppure il mio vicino che pur mi aveva veduto posare quei pochi scudi sul venticinque. Guardai i croupiers: immobili, impassibili, come statue. «Ah sì?» dissi tra me e, quietamente, mi tirai su la mano gli altri scudi che avevo posato sul tavolino innanzi a me, e me la filai.

«Ecco un metodo, pour gagner à la roulette,» pensai, «che non è contemplato nel mio opuscolo. E chi sa che non sia l’unico, in fondo!»

Ma la fortuna, non so per quali suoi fini segreti, volle darmi una solenne e memorabile smentita.

Appressatomi a un altro tavoliere, dove si giocava forte, stetti prima un buon pezzo a squadrar la gente che vi stava attorno: erano per la maggior parte signori in marsina; c’eran parecchie signore;

più d’una mi parve equivoca; la vista d’un certo ometto biondo biondo, dagli occhi grossi, ceruli, venati di sangue e contornati da lunghe ciglia quasi bianche, non m’affidò molto, in prima; era in marsina anche lui, ma si vedeva che non era solito di portarla: volli vederlo alla prova: puntò forte: perdette; non si scompose: ripuntò anche forte, al colpo seguente: via! non sarebbe andato appresso ai miei quattrinucci. Benché, di prima colta, avessi avuto quella scottatura, mi vergognai del mio sospetto. C’era tanta gente là che buttava a manate oro e argento, come fossero rena, senza alcun timore, e dovevo temere io per la mia miseriola?

Notai, fra gli altri, un giovinetto, pallido come di cera, con un grosso monocolo all’occhio sinistro il quale affettava un’aria di sonnolenta indifferenza; sedeva scompostamente; tirava fuori dalla tasca dei calzoni i suoi luigi; li posava a casaccio su un numero qualunque e, senza guardare, pinzandosi i peli dei baffetti nascenti aspettava che la boule cadesse; domandava allora al suo vicino se aveva perduto.

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