Jack Mars - Contro Ogni Nemico

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Uno dei migliori thriller che abbia letto quest’anno. La trama è intelligente, e aggancia dal primo momento. L’autore ha fatto un lavoro superbo nel creare una serie di personaggi pienamente sviluppati e davvero interessanti. Non vedo l’ora di leggere il seguito. Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (su A ogni costo) CONTRO OGNI NEMICO è il libro 4 della serie thriller best-seller di Luke Stone, che comincia con A OGNI COSTO (libro 1), un libro scaricabile gratuitamente con più di 250 recensioni a cinque stelle! Da una base NATO situata in Europa è stato rubato un piccolo arsenale di armi nucleari statunitensi. Il mondo si danna per cercare di capire chi siano i colpevoli e quale sia il loro obiettivo – e per fermarli prima che scatenino l’inferno sull’umanità. Con poche ore a disposizione prima che sia troppo tardi, la presidente non ha altra scelta che chiamare Luke Stone, l’ex capo di una squadra paramilitare d’élite dell’FBI. Dato che sta finalmente cercando di rimettere ordine nella sua vecchia vita, e che deve affrontare devastanti notizie sul fronte familiare, Luke non vuole il lavoro. Ma con la nuova donna presidente eletta alla disperata ricerca di aiuto, capisce di non poterle voltare le spalle. Nella mozzafiato caccia del gatto col topo che segue, Luke, Ed e la sua ex squadra dovranno essere più audaci, e infrangere più regole, di prima. Con il destino del mondo a rischio, Luke si inoltra nella torbida nebbia della guerra e dello spionaggio, e scopre che il colpevole non è chi pensa lui, alla fine. Thriller politico con azione non-stop, ambientazioni internazionali drammatiche e suspense mozzafiato, CONTRO OGNI NEMICO è il libro 4 della serie best-seller e acclamata dalla critica di Luke Stone, un’esplosiva nuova serie che vi costringerà a girare pagina fino a tarda notte. Il libro 5 della serie di Luke Stone sarà presto disponibile.

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Luke era ancora scettico. “E non vuoi niente in cambio?”

Don non disse nulla per un lungo momento. Fece un cenno alla scrivania disordinata. Poi sorrise. Non c’era allegria in quel sorriso.

“Sì che voglio qualcosa. Non è molto da chiedere.” Fece una pausa, e guardò la minuscola cella. “Non mi dispiace stare qui, Luke. Alcuni uomini impazziscono davvero – la gente illetterata. Non hanno accesso alla vita della mente. Ma io sì. A te pare che io sia chiuso a chiave dietro a muri di calcestruzzo, ma per me è quasi come essere in anno sabbatico. Correvo da quarant’anni filati, senza la possibilità di prendermi una pausa. Queste mura non mi imprigionano. Ho vissuto una vita che basta a una dozzina di uomini, ed è tutta quanta ancora quassù.”

Si fece tamburellare le dita sulla fronte.

“Sto pensando ai vecchi tempi, alle vecchie missioni. Ho cominciato a lavorare alle mie memorie. Penso che un giorno saranno una lettura affascinante.”

Si fermò. Uno sguardo distante gli entrò negli occhi. Fissò il muro, ma stava guardando qualcos’altro. “Ricordi i tempi alla Delta, quando ci hanno mandato nel Congo dopo che il signore della guerra si è incoronato principe Joseph? Quello con i soldati bambini? L’esercito del paradiso.”

Luke annuì. “Me lo ricordo. I pezzi grossi del JSOC non volevano che tu ci andassi. Pensavano…”

“Che fossi troppo vecchio. È vero. Ma sono andato lo stesso. E stiamo scesi lì di notte, io, te, chi altro? Simpson…”

“Montgomery,” disse Luke. “Un paio di altri.”

Gli occhi di Don erano molto vivi. “Giusto. Il pilota ha combinato un macello e ci ha buttati nel fiume, in uno degli affluenti. Siamo tutti precipitati in acqua con addosso diciotto chili di zaino.”

“Non mi piace pensarci,” disse Luke. “Ho sparato a quel rinoceronte.”

Don lo indicò. “Giusto. Me n’ero dimenticato. Il rinoceronte ci ha caricati. Riesco ancora a vederlo sotto la luce della luna. Però ci siamo arrampicati fuori, zuppi, e abbiamo squarciato la gola di quel bastardo sanguinario – gli abbiamo decapitato tutta la squadra con un solo rapido e decisivo colpo. E non abbiamo torto un capello a nessuno dei bambini. Sono stato orgoglioso dei miei uomini, quella notte. Sono stato orgoglioso di essere americano.”

Luke annuì di nuovo, quasi sorrise. “È stato molto tempo fa.”

“Per me è stato ieri,” disse Don. “Ho appena cominciato a scriverlo. Domani aggiungo il rinoceronte.”

Luke non disse nulla. Era stata una missione, una delle tante. L’autobiografia di Don sarebbe stata un libro lungo.

“E qual è il punto,” disse Don. “Qui non è male. Il cibo non è neanche cattivo – be’, non è cattivo come ci si potrebbe aspettare. Ho i miei ricordi. Ho una vita. Ho messo su una routine di esercizi fisici che per la maggior parte posso fare qui, nella cella. Squat, pushup, chin up, persino posizioni yoga e tai chi. Ho una sequenza, e la eseguo per ore ogni giorno, cambio velocità, la inverto. Ha anche una componente mentale. Credo che darebbe il via a dei patiti del fitness, se la gente la conoscesse. Vorrei registrarla – Prison Power. Mi ha messo in una forma migliore di quando ero fuori nel mondo, libero di fare tutto ciò che mi pareva.”

“Okay, Don,” disse Luke. “Questa è la tua villa per la pensione. Carino.”

Don sollevò una mano. “Voglio vivere, è questo che ti sto dicendo. Mi faranno l’iniezione. Lo sai tu e lo so io. Non voglio l’iniezione. Senti, sono realistico. Lo so che non otterrò la grazia, non nell’attuale ambiente politico. Ma se l’informazione che ti ho dato darà risultati, voglio che la presidente commuti la mia in una sentenza a vita senza la possibilità della condizionale.”

Luke era irritato dall’incontro. Don Morris se ne stava seduto su quello che consisteva in un bagno di pietra, a scrivere le sue memorie e a sviluppare ciò che sperava sarebbe diventata una passeggera moda nel fitness. Patetico. Luke una volta vedeva Don come un grande americano.

La valvola di controllo del sangue di Luke passò da caldo a incandescente. Aveva i suoi problemi, e la sua vita, ma ovviamente a Don non importava tanto. Don era diventato il centro del suo personale universo, lì dentro.

“Perché lo fai, Don?” Indicò la cella. “Cioè…” Scosse la testa. “Guarda questo posto.”

Don non esitò. “L’ho fatto per salvare il mio paese, e lo rifarei. Thomas Hayes era il presidente peggiore dai tempi di Herbert Hoover. Su questo non ho dubbi. Ci stava portando sottoterra. Non aveva idea di come proiettare il potere dell’America nel mondo, e non aveva la propensione a farlo. Pensava che il mondo si prendesse cura di sé. Si sbagliava. Il mondo NON si prende cura di sé. Ci sono forze oscure allineate contro di noi – vanno fuori controllo se per un secondo non le guardiamo. Si fanno posto nel vuoto di potere che lasciamo loro. Vittimizzano il debole e l’inerme. I nostri amici perdono la fede. Io non potevo più restare in attesa e lasciare che accadessero queste cose.”

“E che cosa hai ottenuto?” disse Luke. “Il paese lo sta gestendo la vicepresidente di Hayes.”

Don annuì. “Giusto. E lei ha un paio di cojones più grossi di lui. La gente a volte ti sorprende. Non sono scontento di avere Susan Hopkins come presidente.”

“Ottimo,” disse Luke. “Glielo dirò. Sono sicuro che sarà deliziata di sentirlo. Don Morris non è scontento della tua presidenza.” Si alzò. Era pronto ad andare. Quel piccolo incontro avrebbe dato molto su cui riflettere.

Don saltò giù dal letto. Mise di nuovo la mano sulla spalla di Luke. Per un attimo Luke pensò che Don avrebbe buttato fuori qualcosa di emotivo, qualcosa che Luke avrebbe trovato imbarazzante, come, “Non andare!”

Ma Don non lo fece.

“Non ignorare quello che ti ho detto,” disse. “Se è vero, abbiamo problemi. Anche una sola arma nucleare nelle mani dei terroristi sarebbe la cosa peggiore a cui si può pensare. Non esiteranno a usarla. Un lancio di successo e il genio è fuori dalla bottiglia. Chi se la becca? Israele? E chi colpiscono quelli con le loro testate? L’Iran? Come si mette il freno a questa cosa? Si chiede un time out? Ne dubito. E se veniamo colpiti noi? O i russi? O entrambi? E se viene innescata una serie automatica di rappresaglie? Paura. Confusione. Fiducia zero. Uomini nei silos, le dita che si agitano, a indugiare sopra al pulsante. Ci sono molte armi nucleari ancora sulla Terra, Luke. Una volta che cominciano i lanci, non c’è una buona ragione per fermarli.”

CAPITOLO SEI

20 ottobre

3:30

Georgetown, Washington, DC

Un pick-up nero lo stava seguendo.

Luke aveva preso un volo notturno per tornare. Adesso era stanco – esausto – però ancora iperattivo e sveglio. Non sapeva quando avrebbe dormito di nuovo.

Il taxi lo aveva scaricato di fronte a una fila di belle brownstone. Le strade a tre corsie erano silenziose e vuote. Sembravano luccicare nella luce delle lampade barocche. Mentre il taxi se ne andava, lui se ne stava in piedi sulla strada ad assaporare la notte fredda. Gli alberi stavano perdendo le foglie – erano ovunque per terra. Mentre osservava, ne scesero delle altre.

Dall’aeroporto, era venuto dritto alla casa di Trudy. Le ombre erano tirate, ma almeno sulla strada era accesa una luce a livello dell’appartamento. Non c’era nessuno in casa – le luci chiaramente erano comandate da un timer, probabilmente un timer di poco prezzo preso in un negozietto. Lo schema era sempre lo stesso. Trudy doveva averlo impostato prima di andarsene.

Il posto era ancora suo – Luke questo lo sapeva. Swann aveva hackerato il suo conto in banca. C’erano dei pagamenti automatici per il mutuo, le tasse per il mantenimento dell’immobile e l’elettricità. Aveva pagato in anticipo due anni di tasse sull’immobile stimate.

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