“Abbiamo nuove istruzioni,” disse Ezatullah.
Eldrick gemette, desiderando di essere morto. Non sapeva che fosse possibile stare così male.
“Devo uscire da questo furgone,” disse Eldrick.
“Chiudi il becco, Abdul!”
Eldrick aveva dimenticato: il suo nome era Abdul Malik adesso. Era strano sentirsi chiamare Abdul, lui, Eldrick, un orgoglioso uomo nero, un orgoglioso americano per la maggior parte della sua vita. Sentendosi così male, desiderò non averlo mai cambiato. Convertirsi in prigione era stata la cosa più stupida che avesse mai fatto.
Tutta quella merda nel retro. Ce n’era tanta, in ogni tipo di contenitore e scatola. Un po’ era filtrata fuori, e ora li stava uccidendo. Aveva già ucciso Bibi. Quel cretino aveva aperto un contenitore quando erano ancora nella camera blindata. Era incredibilmente forte e aveva strappato via il coperchio. Perché l’aveva fatto? Eldrick lo rivedeva lì a prendere in mano il contenitore. “Non c’è niente qui,” aveva detto. Poi se l’era avvicinato al naso.
Nel giro di un minuto, aveva cominciato a tossire. Praticamente era affondato sulle sue ginocchia. Poi a quattro zampe, a tossire. “Ho qualcosa nei polmoni,” diceva. “Non riesco a buttarlo fuori.” Si era messo a rantolare. Il suono era orribile.
Ezatullah si era avvicinato e gli aveva sparato alla nuca.
“Credimi, gli ho fatto un favore,” aveva detto.
Adesso il furgone stava attraversando un tunnel. Il tunnel era lungo e stretto e buio, con luci arancioni che sfrecciavano sopra la testa. Le luci diedero a Eldrick le vertigini.
“Devo uscire da questo furgone!” urlò. “Devo uscire da questo furgone! Devo…”
Ezatullah si voltò. Aveva tirato fuori la pistola. La puntò alla testa di Eldrick.
“Zitto! Sono al telefono.”
La faccia tagliata in due di Ezatullah era rossa. Stava sudando.
“Mi ucciderai come hai fatto con Bibi?”
“Ibrahim era mio amico,” disse Ezatullah. “L’ho ucciso per pietà. A te ti ucciderò solo per farti stare zitto.” Premette la bocca della pistola contro la fronte di Eldrick.
“Sparami. Non me ne frega niente.” Eldrick chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, Ezatullah si era voltato dall’altra parte. Erano ancora nel tunnel. Le luci erano troppe. Un’improvvisa ondata di nausea attraversò Eldrick, e uno spasmo sempre più urgente gli prese il corpo. Gli si contrasse lo stomaco e sentì dell’acido in gola. Si piegò e si vomitò sul pavimento tra le scarpe.
Passò qualche secondo. La puzza gli arrivò al viso, e si svuotò di nuovo.
Oh Dio, pregò silenziosamente. Ti prego lasciami morire.
5:33 a.m.
East Harlem, quartiere di Manhattan
Luke trattenne il respiro. Non gli piacevano molto i rumori forti, e un cazzo di rumore forte stava per arrivare.
Restò completamente immobile nella tetra luce di un caseggiato di Harlem. Aveva estratto la pistola, la schiena schiacciata contro la parete. Dietro di lui, Ed Newsman stava quasi nella sua stessa posizione. Di fronte a loro nell’angusto corridoio, una mezza dozzina di membri della SWAT con elmetti e giubbotto protettivo era ai lati delle porte dell’appartamento.
Nell’edificio c’era un silenzio di tomba. Granelli di polvere volteggiavano nell’aria. Qualche momento prima, un piccolo robot aveva fatto scivolare un minuscolo telescopio con videocamera al di sotto della soglia, in cerca di esplosivi fissati alla porta. Negativo. Ora il robot si era ritirato.
Due tizi della SWAT entrarono con un pesante ariete. Era di quelli a oscillazione, e ogni agente reggeva il manico su ogni lato. Non fecero alcun rumore. Il capo del team SWAT alzò il pugno. Apparve il dito indice.
Uno.
Medio. Due.
Anulare …
I due uomini indietreggiarono e fecero oscillare l’ariete. BAM!
La porta esplose verso l’interno mentre i due agenti ripiegavano. Gli altri quattro sciamarono dentro, strillando all’improvviso, “Giù! Giù! A TERRA!”
Da qualche parte lungo il corridoio, un bambino si mise a piangere. Si aprirono porte, fecero capolino teste, poi si ritirarono negli appartamenti. Si era alle solite. A volte i poliziotti venivano e buttavano giù la porta di un vicino.
Ed e Luke aspettarono per una trentina di secondi finché la SWAT ebbe messo in sicurezza l’appartamento. Il corpo era sul pavimento del salotto, dove Luke aveva sospettato dovesse essere. Lo guardò appena.
“Libero?” chiese al capo della SWAT. Il tizio gli diede un’occhiataccia. C’era stato un piccolo litigio quando Luke aveva comandato il suo team. Questi erano del NYPD. Non erano pedine su una scacchiera che i federali potevano muovere per il capriccio di un solo uomo. Volevano che Luke lo sapesse. A Luke andava bene, ma un attacco terroristico era difficilmente un capriccio di un solo uomo.
“Libero,” disse il capo. “Quello probabilmente è il tuo soggetto.”
“Grazie,” disse Luke.
Il tizio scrollò le spalle e si voltò da un’altra parte.
Ed si chinò sul corpo. Portava con sé uno scanner per impronte. Prese le impronte da tre dita.
“Cosa ne pensi, Ed?”
Scrollò le spalle. “Ho caricato qui le impronte di Ken Bryant dal database della polizia. Dovremmo sapere se c’è una corrispondenza in pochi secondi. Nel frattempo, abbiamo evidenti segni di legatura e di gonfiore. Il corpo è ancora piuttosto caldo. Il rigor mortis è cominciato, ma non è completo. Le dita stanno diventando blu. Direi che è morto come la guardia dell’ospedale, per strangolamento, grosso modo dalle otto alle dodici ore fa.”
Alzò la testa verso Luke. C’era un bagliore nei suoi occhi. “Se vuoi abbassargli i pantaloni per me, posso prendergli la temperatura rettale e restringere un po’ il lasso di tempo.”
Luke sorrise e scosse la testa. “No grazie. Tra le otto e le dodici ore va bene. Dimmi una cosa, però: è lui?”
Ed diede un’occhiata allo scanner. “Bryant? Sì, è lui.”
Luke prese il telefono e compose il numero rapido di Trudy. Dall’altra parte, il telefono squillava. Una volta, due, tre. Luke guardò la cupa desolazione dell’appartamento. I mobili del salotto erano vecchi, con i rivestimenti strappati e della roba che usciva dai braccioli del divano. Un tappeto logoro era disteso sul pavimento, e contenitori vuoti del takeaway e utensili di plastica erano sparsi sulla tavola. Pesanti tende nere coprivano le finestre.
La voce di Trudy si fece sentire, vigile, quasi musicale. “Luke,” disse. “Da quanto tempo? Mezz’oretta?”
“Voglio parlare del custode.”
“Ken Bryant,” disse.
“Esatto. Non è più scomparso. Io e Newsam siamo nel suo appartamento. Abbiamo un riscontro positivo. È morto tra le otto e le dodici ore fa. Strangolato, come le guardie.”
“Okay,” disse.
“Voglio che accedi ai suoi conti bancari. Probabilmente aveva un deposito diretto dal suo lavoro all’ospedale. Comincia con quello e muoviti da lì.”
“Mmm, avrò bisogno di un mandato per questo.”
Luke fece una pausa. Capiva la sua esitazione. Trudy era una brava agente. Era anche giovane e ambiziosa. Rompere le regole aveva fatto deragliare molte carriere promettenti. Ma non sempre. A volte rompere le regole era una via rapida per la promozione. Dipendeva tutto da quali regole rompevi, e dalle conseguenze.
“Lì con te c’è Swann?” chiese Luke.
“Sì.”
“Allora il mandato non ti serve.”
Lei non rispose.
“Trudy?”
“Sono qui.”
“Non abbiamo il tempo di procurarci un mandato. Ci sono vite in pericolo.”
“Bryant è un sospettato in questo caso?”
“È una persona di interesse. In ogni caso, è morto. Difficilmente lederemo i suoi diritti.”
“Ho ragione a pensare che sia un tuo ordine, Luke?”
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