Caitlin abbassò lo sguardo e notò per la prima volta le macchie: probabilmente si era sporcata andando a sbattere contro l’asfalto.
“Perché sei a casa così presto?” chiese Caitlin.
“È il primo giorno anche per me, sai,” disse seccamente. “Non esisti solo tu. Poco lavoro. Il capo mi ha mandato a casa presto.”
Caitlin non sopportava il tono maligno di sua madre. Non quella sera. Faceva sempre l’arrogante con lei, e quella sera Caitlin ne aveva abbastanza. Decise di risponderle a tono.
“Fantastico,” disse in modo tagliente. “Significa che ci trasferiremo di nuovo?”
Sua madre scattò in piedi all’istante. “Bada a come parli!” gridò.
Caitlin sapeva che sua madre stava proprio aspettando una scusa per poterle urlare contro. Pensò fosse meglio limitarsi a stuzzicarla e poi piantarla.
“Non dovresti fumare attorno a Sam,” rispose Caitlin freddamente, poi entrò nella piccola camera da letto e sbatté la porta alle sue spalle, chiudendola a chiave.
Sua madre diede subito un colpo alla porta.
“Vieni qui, piccola mocciosa! Che modi sono questi di parlare a tua madre! Chi è che porta il pane a casa…”
Quella sera Caitlin, così distratta dagli eventi di poco prima, riuscì ad annullare la voce di sua madre. Iniziò invece a passare in rassegna nella sua mente le cose successe quel giorno. Il suono delle risate di quei ragazzi. Il battito del suo cuore che le martellava nelle orecchie. Il rumore del suo ruggito.
Cos’era successo esattamente? Da dove le era arrivata quella forza? Era stata una semplice vampata di adrenalina? Una parte di lei desiderava che fosse così. Ma un’altra parte di lei sapeva che non lo era. Cos’era lei?
I colpi alla porta continuavano, ma Caitlin li sentiva a malapena. Il suo cellulare era appoggiato sulla scrivania e vibrava continuamente, illuminandosi per messaggi, e-mail, conversazioni in Facebook, ma non si curava neanche di quello.
Si portò accanto alla finestrella della sua stanza e guardò in basso, verso l’angolo di Amsterdam Avenue, e un nuovo suono sorse nella sua mente. Era il suono della voce di Jonah. L’immagine del suo sorriso. Una voce sommessa, profonda, rassicurante. Riportò alla mente quanto fosse delicato, quanto fragile sembrasse. Poi lo rivide steso a terra, insanguinato, il suo prezioso strumento in pezzi. Una nuova ondata di rabbia crebbe in lei.
La rabbia si trasformò in preoccupazione: avrebbe voluto sapere se stava bene, se se n’era andato, se ce l’aveva fatta a tornare a casa. Lo immaginò mentre la chiamava. Caitlin. Caitlin.
“Caitlin?”
Una nuova voce era fuori dalla porta. Una voce di ragazzo.
Confusa, si riscosse dai suoi pensieri.
“Sono Sam. Lasciami entrare.”
Andò alla porta e vi appoggiò la testa.
“Mamma se n’è andata,” disse la voce dall’altra parte. “È scesa a prendere le sigarette. Dai, lasciami entrare.”
Lei aprì la porta.
Lì c’era Sam che la fissava, con la preoccupazione stampata in faccia. A quasi quindici anni sembrava più vecchio della sua età. Era cresciuto in fretta, era alto quasi un metro e ottanta, ma non si era ancora irrobustito ed era quindi goffo e allampanato. Con i capelli neri e gli occhi castani aveva colori simili ai suoi. Si capiva che erano parenti. Poteva scorgere la preoccupazione sul suo volto. Lui le voleva bene più di ogni altra cosa.
Lo lasciò entrare, chiudendo velocemente la porta dietro di lui.
“Scusa,” disse. “Proprio non ce la faccio con lei stasera.”
“Cosa vi è successo?”
“Il solito. Mi è saltata addosso appena sono entrata.”
“Penso abbia avuto una giornata pesante,” disse Sam cercando di mettere pace tra loro, come sempre. “Spero non la licenzino un’altra volta.”
“Chi se ne frega? New York, Arizona, Texas… Che importa quale sarà la prossima? Il nostro trasferirsi non avrà mai fine.”
Sam si accigliò mentre si sedeva sulla scrivania, e lei si sentì subito male. Aveva spesso la lingua tagliente, parlava senza pensare, e avrebbe voluto rimangiarsi quello che aveva detto.
“Com’è andato il tuo primo giorno?” chiese, cercando di cambiare argomento.
Lui scrollò le spalle. “Bene, mi pare.” Toccò la sedia con la punta del piede.
Sollevò lo sguardo. “Il tuo?”
Lei scrollò le spalle. Doveva esserci qualcosa nella sua espressione, perché lui non distolse gli occhi da lei. Continuò a guardarla.
“Cos’è successo?”
“Niente,” disse lei sulla difensiva, e si voltò andando vicino alla finestra.
Sentiva che la stava guardando.
“Sembri… diversa.”
Esitò, chiedendosi se lui sapesse, chiedendosi se il suo aspetto esteriore mostrasse dei cambiamenti. Deglutì.
“Come?”
Silenzio.
“Non lo so,” rispose lui alla fine.
Caitlin guardò fuori dalla finestra, osservando distrattamente un uomo alla drogheria d’angolo che passava a un tipo una bustina con della roba.
“Odio questo posto,” disse lui.
Lei si voltò a guardarlo.
“Anch’io.”
“Stavo addirittura pensando di…” abbassò la testa, “…andarmene.”
“Cosa intendi dire?”
Lui scrollò le spalle.
Lei lo guardò. Sembrava veramente depresso.
“Dove?” gli chiese.
“Magari… a rintracciare papà.”
“E come? Non abbiamo la più pallida idea di dove sia.”
“Potrei tentare. Potrei trovarlo.”
“Come?”
“Non lo so… ma potrei provare.”
“Sam. Potrebbe essere morto per quanto ne sappiamo.”
“Non dirlo neanche!” gridò e il volto gli si fece rosso.
“Scusa,” disse Caitlin.
Lui si acquietò.
“Ma hai mai considerato che, anche se lo trovassimo, lui potrebbe pure non volerci vedere? Del resto se n’è andato. E non ha mai cercato di mettersi in contatto con noi.”
“Può essere che mamma non glielo permetta.”
“Oppure può essere che non gliene freghi niente di noi.”
Sam si accigliò ancora di più e toccò ancora la sedia con la punta del piede. “L’ho cercato in Facebook.”
Caitlin sgranò gli occhi per la sorpresa.
“Lo hai trovato?”
“Non ne sono sicuro. C’erano quattro persone con il suo nome. Due di loro avevano un profilo privato, e senza foto. Ho mandato un messaggio ad entrambi.”
“E?”
Sam scosse la testa.
“Nessuna risposta.”
“Papà non è tipo da Facebook.”
“Questo non puoi saperlo,” rispose, ancora una volta sulla difensiva.
Caitlin sospirò ed andò al letto per sdraiarvisi sopra. Fissò il soffitto ingiallito, con il colore che si scrostava, e si chiese come potessero essere tutti giunti a quel punto. C’erano state città nelle quali erano vissuti felicemente, addirittura periodi in cui loro madre sembrava quasi allegra. Come quando si vedeva con quel tipo. Sufficientemente felice, tanto almeno da lasciare Caitlin in pace.
C’erano città, come l’ultima nella quale erano stati, dove sia lei che Sam si erano fatti degli amici, dove era sembrato che sarebbero potuti restare sul serio, almeno abbastanza a lungo per diplomarsi nello stesso posto. E poi tutto sembrava cambiare così in fretta. Di nuovo a preparare le valigie. A salutare. Era troppo chiedere un’infanzia normale?
“Potrei tornare a Oakville,” disse Sam all’improvviso, interrompendo il corso dei suoi pensieri. La loro ultima città. Era sorprendente come lui sapesse sempre con esattezza a cosa lei stava pensando. “Potrei andare a stare da degli amici.”
Si sentiva sopraffatta da quella giornata. Era troppo e basta. Non riusciva a pensare chiaramente, e nella sua frustrazione sentiva che anche Sam si stava preparando ad abbandonarla, che non gli interessava più veramente di lei.
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