Fece ora una deviazione tra le tende, cambiando direzione brevemente per passare vicino a una delle tende adibite a mensa dove un giorno prima uno dei cuochi aveva avuto bisogno di aiuto per scrivere un messaggio da mandare a casa. L’esercito dava a malapena da mangiare alle sue matricole e Sartes sentiva lo stomaco che brontolava all’idea di un po’ di cibo, ma non mangiò ciò che si era portato dietro mentre correva verso la tenda del suo ufficiale comandante.
“Dove sei stato?” chiese l’ufficiale. Il suo tono rendeva chiaro che essere stato rallentato da altri soldati non sarebbe stata una scusa plausibile. Ma Sartes lo sapeva. Era per questo che era andato verso la tenda adibita a mensa.
“Ho raccolto questo per strada, signore,” disse Sartes porgendo una tortina di mele che aveva sentito essere il cibo preferito dell’ufficiale. “Sapevo che oggi non aveva possibilità di andarsela a prendere lei.”
L’atteggiamento dell’uomo cambiò all’istante. “Pensiero molto premuroso, matricola…”
“Sartes, signore.” Sartes non osò sorridere.
“Sartes. Potremmo usare alcuni soldati che sanno pensare. Anche se la prossima volta, ricorda, prima vengono gli ordini.”
“Sì, signore,” disse Sartes. “C’è niente che volete io faccia, signore?”
L’ufficiale lo congedò con un gesto. “Non adesso, ma mi ricorderò il tuo nome. Sei congedato.”
Sartes lasciò la tenda del comandante sentendosi molto meglio di quando vi era entrato. Non era stato certo che quel piccolo gesto l’avrebbe salvato dopo il ritardo che i soldati gli avevano causato. Per ora però sembrava avergli evitato una punizione ed era riuscito a raggiungere la posizione in cui un ufficiale sapeva chi lui fosse.
Sembrava come essere sul filo del rasoio, ma l’intero esercito dava ormai quella sensazione a Sartes. Fino a quel punto era sopravvissuto nell’esercito con la furbizia e tenendosi un passo davanti alpeggio della violenza che c’era lì. Aveva visto ragazzi della sua età che venivano uccisi o picchiati al punto di morire. Anche così però non sapeva quanto sarebbe stato capace di continuare. Per una matricola come lui quello era il genere di posto dove la violenza e la morte potevano essere solo ritardate.
Sartes deglutì pensando a tutte le cose che potevano andare storte. Un soldato poteva picchiare un po’ troppo. Un ufficiale poteva offendersi per qualsiasi piccolo atto e ordinare una punizione atta ad intimidire gli altri con la sua crudeltà. Poteva essere spinto avanti in qualsiasi momento e aveva sentito dire che le matricole andavano in prima linea per “sradicare i deboli”. Addirittura l’allenamento poteva rivelarsi fatale, dato che l’esercito faceva poco uso di armi spuntate e alle matricole venivano date poche vere istruzioni.
La paura che stava alla base di tutte le altre era che qualcuno scoprisse che aveva cercato di unirsi a Rexus e ai ribelli. Non c’era modo che potessero farlo, ma anche la minima possibilità era abbastanza per annullare tutte gli altri timori. Sartes aveva visto il corpo di un soldato accusato di avere simpatie per i ribelli. La sua stessa unità aveva avuto ordine di farlo a pezzi per provare la loro lealtà. Sartes non voleva finire così. Solo il pensiero era sufficiente per fargli attorcigliare lo stomaco eliminando anche la minima fame.
“Ehi, tu!” gridò una voce, e Sartes ebbe un sobbalzo. Era impossibile scuotersi di dosso la sensazione che qualcuno avesse indovinato quello che stava pensando. Si sforzò di fingere almeno di essere calmo. Sartes si voltò e vide un soldato con addosso l’armatura elaborata di un sergente, con segni profondissimi sulle guance. “Sei tu il messaggero del capitano?”
“Gli ho appena portato un messaggio, signore,” disse Sartes. Non era proprio una bugia.
“Allora sei quello che fa al caso giusto per me. Vai a vedere dove sono finiti i carri con le mie scorte di legname. Se qualcuno ti fa problemi, digli che ti ha mandato Venn.”
Sartes salutò frettolosamente. “Subito, signore.”
Corse via per eseguire la sua commissione, ma mentre andava non si concentrò per niente sulla missione che aveva per mano. Fece una strada molto più lunga e tortuosa. Una strada che gli avrebbe permesso di spiare i confini del campo, i suoi punti di strozzatura, una strada che gli avrebbe permesso di scovare un qualsiasi punto debole.
Perché, morto o no, Sartes avrebbe trovato un modo per fuggire quella notte.
Lucio si faceva strada in mezzo alle folle di nobili nella sala del trono del castello, fumante di rabbia mentre avanzava. Era furente per il fatto che doveva farsi strada a spintoni, quando invece tutti avrebbero dovuto mettersi da parte e inchinarsi per lasciarlo passare. Era furente per il fatto che Tano era fuori a prendersi tutta la gloria, annientando i ribelli di Haylon. Ma soprattutto era furente per come le cose erano andate nell’arena. Quella mocciosa di Ceres aveva rovinato di nuovo i suoi piani.
Davanti a sé Lucio poteva vedere il re e la regina intenti a conversare con Cosma, il vecchio babbeo della biblioteca. Lucio aveva pensato di aver smesso di vedere quel vecchio studioso da bambino, quando venivano tutti costretti a imparare fatti assurdi sul mondo e sui suoi artefatti. Ma no, apparentemente sulla scia della lettera che aveva fornito mostrando il vero tradimento di Ceres, Cosma aveva ottenuto di avere per sé l’ascolto del suo re.
Lucio continuò a farsi strada spingendo. Attorno a lui poteva sentire i nobili della corte intenti nelle loro futili cospirazioni. Vide la sua lontana cugina Stefania poco distante che rideva di qualche barzelletta raccontata da una qualche altre perfetta nobile ragazza. Guardò verso di lui incrociando il suo sguardo abbastanza a lungo da sorridergli. Lucio decise che era veramente una ragazza senza cervello. Ma bellissima. Magari in futuro, pensò, ci sarebbe potuta essere un’opportunità di trascorrere più tempo attorno a quella ragazzina. Lui, almeno in quanto ad aspetto fisico, poteva eguagliare Tano.
Per ora però la rabbia di Lucio per ciò che era successo era troppo forte anche perché quei pensieri lo divertissero. Arrivò ai piedi dei troni, proprio alla base della pedana sopraelevata.
“È ancora viva!” disse una volta arrivato vicino ai reali. Non gli interessava che il tono della voce fosse tanto forte da arrivare in tutta la stanza. Che sentano, decise. Certo non faceva differenza che Cosma stesse ancora sussurrando con il re e la regina. Cosa poteva mai dire di valore un uomo che aveva passato tutta la sua vita attorno a rotoli di carta e pergamene?
“Mi avete sentito?” chiese Lucio. “La ragazza è…”
“Ancora viva, sì,” disse il re interrompendolo con una mano tesa in segno di silenzio. “Stiamo discutendo questioni più importanti. Tano manca dalla battaglia per Haylon.”
Quel gesto fu solo un altro elemento che contribuì ad incrementare la rabbia di Lucio. Lo stavano trattando come un servitore qualsiasi da mettere a tacere, pensò. Anche così però attese. Non poteva permettersi l’ira del re. E poi gli ci volevano uno o due momenti per digerire quello che aveva appena sentito.
Tano mancava? Lucio cercò di pensare a come la cosa potesse avere ripercussioni su di lui. Avrebbe cambiato la sua posizione a corte? Si ritrovò a guardare di nuovo verso Stefania, pensieroso.
“Grazie, Cosma,” disse la regina infine.
Lucio guardò lo studioso scendere tra la folla di nobili spettatori. Solo allora il re e la regina gli concessero la loro attenzione. Lucio cercò di stare ben eretto. Non avrebbe permesso a tutta quella gente di scorgere il risentimento che gli bruciava dentro per quel piccolo insulto. Se qualcun altro lo avesse trattato a quel modo, si disse Lucio, lo avrebbe già ucciso.
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