“Mi tenevano un coltello alla gola,” disse Marita. “Ho dovuto.”
“Hai dovuto fare cosa?” chiese Berin.
Marita scosse la testa. “Ho dovuto chiamarlo fuori. Mi avrebbero uccisa.”
“Quindi lo hai piuttosto consegnato a loro?”
“Cosa pensi che potessi fare?” chiese Marita. “Tu non c’eri.”
E Berin si sarebbe sentito in colpa per questo fintanto che avesse vissuto. Marita aveva ragione. Forse se lui fosse stato lì questo non sarebbe successo. Lui se n’era andato nel tentativo di evitare che la sua famiglia morisse di fame, e durante la sua assenza le cose erano precipitate. Il senso di colpa non sostituì però il dolore o la rabbia. Vi aggiunse solo forza. Tutto ribolliva in Berin, come un qualcosa di vivo che lottava per uscire.
“E Ceres?” chiese. Scosse ancora Marita per le spalle. “Dimmelo! La verità questa volta. Cos’hai fatto?”
Ma Marita si ritrasse di nuovo e questa volta cadde carponi a terra, rannicchiandosi e evitando di guardarlo. “Scoprilo da te. Sono stata io quella che ha dovuto sopportare tutto questo. Io, non tu.”
C’era una parte di Berin che avrebbe voluto continuare a scuoterla fino a che non gli avesse dato una risposta. Che voleva costringerla a dire la verità a tutti i costi. Ma lui non era quel genere di uomo e sapeva che non avrebbe mai potuto farlo. Anche solo il pensiero lo disgustava.
Non prese niente da casa quando se ne andò. Non c’era niente che lui desiderasse lì. Mentre guardava Marita, così totalmente chiusa nella sua personale amarezza da aver ceduto il proprio figlio, da aver cercato di mascherare ciò che era accaduto ai loro figli, gli fu difficile credere che ci fosse mai stato qualcosa di importante per lui lì.
Berin uscì all’aria aperta spazzando via con un colpo di palpebre ciò che era rimasto delle sue lacrime. Fu solo quando la luce del sole lo colpì che si rese conto di non avere idea di cosa fare adesso. Cosa poteva fare? Non c’era modo di aiutare il suo figlio più grande, non adesso, mentre gli altri potevano essere ovunque.
“Non ha importanza,” si disse. Poteva sentire la determinazione dentro di sé che si trasformava in qualcosa di simile al ferro che lui era solito lavorare. “Non mi fermo qui.”
Magari qualcuno là attorno aveva visto dove erano andati. Certamente c’era qualcuno che sapeva dove si trovava l’esercito e Berin sapeva benissimo che un uomo che costruiva spade poteva sempre trovare un modo per avvicinarsi all’esercito.
Per quanto riguardava Ceres… ci sarebbe stato qualcosa. Doveva essere da qualche parte. Perché l’alternativa era impensabile.
Berin guardò verso la campagna che circondava la sua casa. Ceres era là fuori da qualche parte. E anche Sartes. Disse a voce alta le parole successive, perché farlo sembrava trasformare tutto in una promessa a se stesso, al mondo, ai suoi figli.
“Vi troverò entrambi,” giurò. “A qualsiasi costo.”
Respirando affannosamente Sartes correva tra le tende dell’esercito stringendo in pugno la pergamena e asciugandosi il sudore dagli occhi, sapendo che se non fosse arrivato in fretta alla tenda del comandante lo avrebbero frustato. Correva e scansava gli ostacoli meglio che poteva, sapendo che il tempo stava per scadere. Aveva tardato ormai un po’ troppe volte.
Aveva già i segni neri sugli stinchi per le volte che aveva sbagliato, il dolore ormai solo uno in più tra i tanti altri. Sbatté le palpebre, disperato, guardandosi attorno nell’accampamento, cerando di trovare la giusta direzione in mezzo a quello sterminato reticolo di tende. C’erano segni e simboli per indicare la via, ma lui stava ancora cercando di imparare quegli schemi.
Sartes sentì qualcosa che gli prendeva il piede e si ritrovò ad inciampare. Il mondo parve capovolgersi mentre cadeva a terra. Per un momento pensò di essersi impigliato in una fune, ma poi sollevò lo sguardo e vide dei soldati che ridevano. Quello a capo del gruppo era un uomo più anziano con capelli corti e stopposi che si stavano ingrigendo e cicatrici che indicavano le tante battaglie fatte.
La paura allora pervase Sartes insieme a una certa forma di rassegnazione: quella era la vita nell’esercito per una matricola come lui. Non chiedeva di sapere perché gli altri uomini l’avessero fatto, perché dire qualsiasi cosa era un modo sicuro per finire a prenderle. Per quanto poteva capire, non c’era praticamente alcun motivo.
Si alzò quindi in piedi e si tolse di dosso alla meno peggio il fango dalla tunica.
“Cosa stai facendo, moccioso?” chiese il soldato che gli aveva fatto lo sgambetto.
“Sto portando una missiva al mio comandante, signore,” disse Sartes sollevando la pergamena per farla vedere all’uomo. Sperava che bastasse a metterlo al sicuro. Spesso non era così, nonostante le regole dicessero che gli ordini avevano la precedenza su qualsiasi altra cosa.
Dal momento in cui era arrivato lì, Sartes aveva imparato che l’esercito imperiale aveva un sacco di regole. Alcune erano ufficiali: lasciare il campo senza permesso, rifiutarsi di seguire gli ordini, tradire l’esercito e si era certi di essere picchiati. Ma c’erano anche altre regole. Meno ufficiali ma non meno pericolose da infrangere.
“E che missiva sarebbe?” chiese il soldato. Gli altri si stavano radunando lì attorno adesso. All’esercito mancava sempre qualche fonte di intrattenimento, quindi se c’era la prospettiva di un po’ di risate alle spese di una matricola, la gente faceva attenzione.
Sartes fece del suo meglio per apparire dispiaciuto. “Non lo so, signore. Ho solo ordine di consegnare questo messaggio. Potete leggerlo se volete.”
Quello era un rischio calcolato. La maggior parte dei soldati ordinari non sapeva leggere. Sperò che il tono della sua proposta non gli facesse guadagnare un ceffone per insubordinazione, ma cercò di non mostrare alcuna paura. Non mostrare paura era una delle regole non scritte. L’esercito aveva almeno tante di quelle regole quante quelle ufficiali. Regole riguardo chi dovevi conoscere per ottenere il cibo più buono. Riguardo chi conosceva chi e da chi dovevi guardarti, al di là del rango. Conoscere quelle regole sembrava l’unico modo per sopravvivere.
“Bene, allora è meglio che tu vada avanti!” ringhiò il soldato dandogli un calcio per spingerlo a proseguire. Gli altri risero come se quello fosse lo scherzo più grandioso che mai avessero visto.
Una delle più importanti regole non scritte sembrava essere che le matricole erano prede da cacciare liberamente. Da quando era arrivato Sartes era stato preso a pugni e schiaffi, era stato picchiato e spinto. Era stato costretto a correre fino quasi a collassare, per poi correre ancora un po’. Era stato caricato con così tanti attrezzi che si era sentito come se non potesse più stare in piedi, costretto a trasportarli, a scavare buche nel terreno per nessun apparente motivo, a lavorare. Aveva sentito storie di uomini nei ranghi che amavano fare anche di peggio ai nuovi arruolati. Anche se morivano, cosa poteva importare all’esercito? Erano lì per essere gettati al nemico. Tutti si aspettavano che morissero.
Sartes si era aspettato di morire il primo giorno. Ma alla fine si era addirittura sentito come se lo desiderasse. Si era raggomitolato nella tenda troppo piccola che gli era stata assegnata e aveva tremato, sperando che il terreno lo ingoiasse. Anche se pareva impossibile, il giorno successivo era stato peggiore. Un altro nuovo arruolato, di cui Sartes non sapeva neanche il nome, era stato ucciso. Lo avevano beccato nel tentativo di fuggire e tutti avevano dovuto assistere alla sua esecuzione, come se fosse una qualche sorta di lezione. L’unica lezione che Sartes era stato in grado di imparare era quanto crudele fosse l’esercito con chiunque desse a vedere che aveva paura. Era allora che aveva iniziato a seppellire la sua paura, a non mostrarla anche se si trovava dentro di lui in ogni momento di veglia.
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