“Io… ci proverò.” Sembrò voler dire di più, ma Tano vide una delle guardie guardare dalla loro parte e la donna si allontanò di corsa.
L’attesa era dura. Come poteva guardare le guardie che costruivano la forca cui sarebbe stato appeso fino quasi a morire, o la grande ruota su cui lo avrebbero poi distrutto? Era una piccola crudeltà sostenere che anche se la regina Atena fosse riuscita a fare presa su suo figlio, l’Impero sarebbe stato ben lungi dall’essere perfetto.
Stava ancora pensando a tutte le crudeltà che Lucio e sua madre potevano infliggere sulla terra quando la servitrice arrivò con qualcosa sotto al braccio. Era solo un pezzo di pergamena e un piccolissimo carboncino, ma glieli passò furtivamente come se fossero la chiave per la libertà.
Tano li prese con attenzione. Non aveva dubbio che le guardie glieli avrebbero portati via, anche solo per avere un’altra piccola opportunità di fargli più male. Anche se ce n’erano alcuni non completamente corrotti dalla crudeltà dell’Impero, credevano che lui fosse il peggiore dei traditori e che si meritasse tutto quello che gli era capitato.
Si chinò sul pezzo di pergamena, sussurrando le parole mentre tentava di scrivere, cercando di mettere le cose esattamente come dovevano essere. Scrisse in piccole lettere, sapendo che c’era un sacco nel suo cuore da dover trasformare in parole:
Alla mia cara moglie Stefania. Per quando leggerai questo, io sarò stato giustiziato. Forse sentirai che me lo merito, dopo il modo in cui ti ho abbandonata. Forse proverai un po’ del dolore che io provo sapendo che sei stata costretta a fare tante cose che non volevi.
Tano cercò di pensare alle parole per tutto quello che sentiva. Era difficile trascrivere tutto, o trovare il senso nella caotica confusione di sentimenti che gli vorticavano dentro:
Io… ti ho amata e sono venuto a Delo per tentare di salvarti. Mi spiace non esserci riuscito, anche se non sono certo che saremmo mai riusciti a stare insieme di nuovo. So… quanto felice eri di sapere del nostro bambino, e ne ero pieno di gioia pure io. Anche in queste condizioni, il mio più grande rimpianto e che non vedremo mai il figlio o figlia che sarebbe potuto diventare.
Solo il pensiero portò altro dolore, più acuto di qualsiasi colpo inflitto dalle guardie. Sarebbe dovuto tornare prima per liberare Stefania. Non avrebbe mai dovuto abbandonarla.
“Mi spiace,” sussurrò, sapendo che non ci sarebbe stato abbastanza spazio per scrivere tutto quello che voleva dire. Certo non poteva mettere tutti i suoi sentimenti su un pezzo di carta che poi avrebbe dato da consegnare a una sconosciuta. Sperava solo che questo fosse sufficiente.
Avrebbe potuto scrivere molto di più, ma quello era il succo del discorso. Il suo dolore perché le cose erano andate nel verso sbagliato. Il fatto che c’era stato dell’amore. Sperava bastasse.
Tano aspettò che la donna si avvicinasse di nuovo, fermandola con un braccio teso.
“Puoi portare questo alla signora Stefania?” le chiese.
La servitrice scosse la testa. “Mi spiace, ma non posso.”
“So che è molto chiederlo,” disse Tano. Capiva il rischio che stava chiedendo alla donna di correre. “Ma se qualcuno potesse portarglielo mentre è ancora rinchiusa…”
“Non è questo,” disse la donna. “Stefania non è qui. Se n’è andata.”
“Andata?” ripeté Tano. “Quando?”
La servitrice allargò le braccia. “Non lo so. Ho sentito una delle damigelle che ne parlava. È andata in città e non è mai tornata.”
Era scappata? Era riuscita ad andarsene fuori di lì senza il suo aiuto? La sua damigella aveva detto che era impossibile, ma forse Stefania aveva lo stesso trovato un modo? Poteva sperare che fosse così, no?
Tano ci stava ancora pensando quando si rese conto che l’attività attorno ai patiboli si era interrotta. Guardando bene, era anche facile capire perché. Avevano finito. Le guardie stavano in attesa accanto alla forca, in ovvia ammirazione del loro lavoro. Pendeva un cappio, nero, stagliato contro il cielo. Lì vicino c’erano una carrucola e un braciere. Torreggiante su tutto quanto c’era una ruota con delle catene fissate e un grosso martello sul pavimento accanto ad essa.
Ora poté vedere la gente che si riuniva. C’erano guardie in cerchio attorno ai lati del cortile che sembravano essere lì per evitare che altri interferissero, ma anche per assistere loro stessi alla morte di Tano.
In alto, affacciati alle finestre, Tano poté vedere servitori e nobili, alcuni che guardavano in basso con quella che pareva pietà, altri con i volti impassibili o con vero e proprio odio. Ne vide alcuni addirittura seduti sui tetti, intenti a guardare da lì dato che non erano riusciti a trovare un altro posto. Stavano trattando quella situazione come se fosse un evento sociale piuttosto che un’esecuzione, e un filo di rabbia crebbe in lui.
“Traditore!”
“Assassino!”
Calarono i fischi, seguiti da insulti e frutta lanciata dalla finestre, e quella fu la parte più dura. Tano aveva pensato che quella gente lo rispettasse, e che sapessero che non avrebbe mai fatto quello di cui lo accusavano, eppure inveivano contro di lui come fosse il peggiore dei criminali. Non tutti lo insultavano, ma erano in parecchi a farlo, e Tano si trovò a chiedersi se davvero lo odiassero così tanto, o se volessero solo mostrare al nuovo re e a sua madre da che parte stavano.
Lottò quando vennero a prenderlo, trascinandolo fuori dalla gabbia. Diede calci e pugni, si dimenò e cercò di liberarsi, ma qualsiasi cosa facesse non bastava. Le guardie gli presero le braccia, le girarono dietro alla schiena e gliele legarono. Tano smise di lottare allora, ma solo perché voleva avere un po’ di dignità in quel momento.
Lo condussero, passo dopo passo, al patibolo che avevano costruito. Tano salì senza dover essere spinto sullo sgabello che avevano sistemato sotto al cappio. Se fosse stato fortunato, magari la caduta gli avrebbe spezzato il collo, privandoli del resto del loro crudele sport.
Mentre gli mettevano il cappio attorno al collo si trovò a pensare a Ceres. A tutto ciò che sarebbe potuto essere diverso. Aveva voluto cambiare le cose. Aveva voluto che le cose andassero meglio, e aveva voluto stare con lei. Avrebbe voluto…
Ma non c’era tempo per i desideri, perché Tano sentì le guardie calciare via lo sgabello e il cappio stringersi attorno al suo collo.
A Ceres non importava che il castello fosse l’ultimo impenetrabile bastione dell’Impero. Non le interessava che avesse pareti simili a ripide scogliere o porte capaci di sopportare le armi di un assedio. Tutto questo terminava qui.
“Avanti!” gridò ai suoi seguaci, e loro insorsero seguendo il suo esempio. Magari un altro generale avrebbe condotto dal retro, pianificando tutto con attenzione e lasciando che fossero gli altri a correre il rischio. Ceres non poteva farlo. Voleva fare a pezzi ciò che era rimasto del potere dell’Impero con le sue mani, e sospettava che metà del motivo per cui così tanta gente la stava seguendo fosse lo stesso.
Ora c’erano anche più persone di quante ce ne fossero state nell’arena. La gente della città era uscita nelle strade, la ribellione si era allargata di nuovo come braci ardenti nuovamente alimentate. C’erano persone vestite da mozzi e macellai, stallieri e mercanti. C’erano addirittura alcune guardie adesso, i colori imperiali strappati di fretta quando avevano visto l’ondata di gente che si avvicinava.
“Saranno pronti per il nostro arrivo,” disse uno dei combattenti accanto a Ceres mentre marciavano verso il castello.
Ceres scosse la testa. “Ci vedranno arrivare. Non è la stessa cosa che essere pronti.”
Nessuno poteva essere pronto per questo. A Ceres non poteva interessare quanti uomini avesse adesso l’Impero, o quanto forti fossero le loro pareti. Aveva un’intera città dalla sua parte. Lei e i combattenti correvano nelle strade, lungo la lunga via che portava ai cancelli del castello. Erano la punta della lancia, con la gente di Delo e ciò che era rimasto degli uomini di Lord West al seguito dietro di loro in una marea di speranza e rabbia popolare.
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