“Andiamo, Kevin,” disse sua madre. “Abbiamo provato.”
Sorprendendo se stesso più di chiunque altro, Kevin scosse la testa. “No, non vado da nessuna parte.”
“Kevin, devi,” disse sua madre.
Kevin si mise a sedere proprio in mezzo alla lobby. Il tappeto non era molto comodo, ma a lui non importava. “Non andrò da nessuna parte fino a che non avrò parlato con qualcuno di questa cosa.”
“Aspetta, non puoi fare così,” disse la donna della reception.
“Io non vado da nessuna parte,” ribadì Kevin.
“Kevin…” iniziò sua madre.
Kevin scosse la testa. Sapeva che era infantile, ma per come la vedeva lui, aveva tredici anni e la cosa poteva anche essergli concessa. E poi questo era importante. Se ora fosse uscito e se ne fosse andato, sarebbe finita lì. E lui non poteva permettersi di lasciar perdere tutto.
“Alzati, o dovrò far chiamare la sicurezza,” disse la donna. Gli si avvicinò e gli afferrò con forza un braccio.
Di scatto la madre di Kevin spostò la sua attenzione dal figlio alla donna, socchiudendo gli occhi.
“Leva subito le mani di dosso a mio figlio.”
“E allora faccia alzare suo figlio e andatevene prima che debba mobilitare la polizia.” La donna lasciò comunque la presa, anche se probabilmente la reazione era dovuta all’occhiataccia che la madre di Kevin le aveva lanciato. Kevin aveva la sensazione che, ora che le si era presentato un modo per poter proteggere suo figlio, sua madre l’avrebbe fatto a qualsiasi costo.
“Non passiamo alle minacce con la polizia. Kevin non sta facendo male a nessuno.”
“Pensa che qui non ci capitino regolarmente dei pazzi?”
“Kevin non è pazzo!” gridò sua madre con un volume che normalmente era riservato ai momenti in qui Kevin faceva qualcosa di davvero sbagliato.
Nei due minuti seguenti il litigio crebbe più di quanto Kevin avrebbe desiderato. Sua madre gli gridò di alzarsi. La donna della reception gridò che avrebbe chiamato la sicurezza. Si gridarono addosso a vicenda e la madre di Kevin decise che non voleva che nessuno minacciasse suo figlio con la sicurezza, e la donna parve dare per scontato che sua madre sarebbe stata capace di spostare Kevin. Durante tutto questo Kevin rimase seduto in sorprendente serenità.
Si sentì quasi cullato, accompagnato in un profondo dove vide qualcosa…
Il buio freddo dello spazio lo circondava, le stelle luccicavano, con la terra che sembrava così diversa dall’alto, tanto da lasciare Kevin quasi senza fiato. C’era un oggetto argentato che fluttuava lì nello spazio, uno fra tanti altri che stavano lì sospesi nell’orbita. Sul fianco erano scritte le parole Pioneer 11…
Poi si trovò disteso sul pavimento dell’Istituto SETI, sua madre che lo aiutava a rialzarsi insieme alla donna della reception.
“Sta bene?” chiese la donna. “Devo chiamare un’ambulanza?”
“No, sto bene,” puntualizzò subito Kevin.
Sua madre scosse la testa. “Sappiamo cosa c’è che non va. Mio figlio sta morendo. Tutto questo… pensavo che l’avrebbe aiutato ad accettare il fatto che quello che vede non è reale, che si tratta della malattia.”
Messa così, suonava come un tradimento, come se la madre di Kevin avesse programmato fin dall’inizio che i suoi sogni si infrangessero.
“Caspico,” disse la donna. “Ok, lascia che ti aiutiamo ad alzarti, Kevin. Posso portarvi qualcosa?”
“Voglio solo parlare con qualcuno,” disse Kevin.
La donna si morse il labbro, poi annuì. “Ok, vedo cosa posso fare.”
Così all’improvviso, pareva che tutto il suo atteggiamento fosse mutato.
“Aspettate qui. Sedetevi. Vado un attimo a vedere se c’è in giro qualcuno che possa almeno parlare con te, magari farti vedere il posto. Anche se a dire il vero non c’è poi molto da vedere.”
Kevin si sedette con sua madre. Avrebbe voluto dirle tutto quello che aveva appena visto, ma dal suo volto vedeva che le avrebbe fatto solo del male. Aspettò allora in silenzio.
Alla fine venne fuori una donna. Doveva avere una cinquantina d’anni e indossava un abito scuro che suggeriva che dovesse prendere parte a quel genere di meeting dove un abbigliamento più informale non sarebbe andato bene. C’era qualcosa in lei che diceva che potesse essere un’insegnante, forse qualcosa nella curiosità con cui guardava Kevin. Porse la mano a sua madre e poi a lui.
“Ciao, Kevin,” disse. “Sono la dottoressa Elise Levin. Sono il direttore dell’istituto.”
“Se ne occupa lei?” chiese Kevin sentendo un’ondata di speranza. “Della roba degli alieni?”
La donna sorrise divertita. “Penso che tu stia descrivendo la cosa troppo forzatamente. Molta della ricerca riguardante forme di vita extraterrestre viene svolta altrove. La NASA fornisce i dati, vengono coinvolte alcune università e spesso, dove possiamo, prendiamo il tempo di altra gente che sta al telescopio. Ma sì, sono responsabile di questo istituto e delle cose che si svolgono qui.”
“Allora devo raccontarle,” disse Kevin. Stava parlando più rapidamente di quanto avrebbe voluto, cercando di tirare fuori le parole prima che questa adulta avesse il tempo di non credergli. “Stanno succedendo delle cose. So che sembra strano, ma vedo delle cose, c’è una sorta di conto alla rovescia…”
Come poteva spiegare il conto alla rovescia? Non erano come dei numeri, non c’era un punto ovvio che si potesse definire come conclusivo. C’era solo una debole pulsazione che si presentava insieme al messaggio nel suo cervello, diventando regolarmente e quasi impercettibilmente più rapida mentre si dirigeva verso qualcosa che Kevin non riusciva a intuire.
“Perché non me ne parli mentre diamo un’occhiata in giro?” suggerì la dottoressa Levin. “Ti faccio vedere alcune delle cose che facciamo qui.”
Condusse Kevin e sua madre attraverso i corridoi dell’istituto, e a essere onesti, Kevin aveva pensato che sarebbe stato più entusiasmante. Aveva pensato di trovarlo meno somigliante a un blocco di uffici.
“Pensavo che ci fossero dei grossi telescopi qui, o laboratori pieni di attrezzatura per fare test sulle cose che vengono dallo spazio,” disse Kevin.
La dottoressa Levin scrollò le spalle. “Abbiamo dei laboratori, e facciamo dei test sui materiali di tanto in tanto, ma non abbiamo telescopi. Stiamo lavorando con Berkeley per costruire una gamma dedicata di radiotelescopi, però.”
“E allora come cercate gli alieni?” chiese la madre di Kevin. Sembrava stupita quanto Kevin per l’assenza di telescopi giganti e attrezzatura per l’ascolto.
“Lavoriamo con altra gente,” disse la dottoressa Levin. “Chiediamo o ingaggiamo tempo su telescopi e sensori. Lavoriamo con dati dalla NASA. Proponiamo loro suggerimenti su luoghi dove potrebbero cercare, o tipi di dati che potrebbero aver bisogno di raccogliere. Mi spiace, so che non è esaltante come la gente a volte pensa. Qui, venite con me.”
Li condusse in un ufficio che almeno sembrava un po’ più interessante di alcuni degli altri spazi. C’erano un paio di computer, un sacco di poster relativi al sistema solare, alcune riviste che avevano citato il lavoro del SETI e dei mobili che parevano essere stati progettati appositamente per essere ergonomici, di stile e probabilmente comodi come un blocco di cemento.
“Lasciate che vi mostri alcune delle cose su cui stiamo lavorando,” disse la dottoressa Levin indicando immagini di grossi telescopi in costruzione. “Stiamo cercando di sviluppare dei radiotelescopi che possano essere tanto potenti da cogliere le frequenze radio dall’ambiente piuttosto che aspettare che qualcuno ci invii un segnale.”
“Ma io penso che qualcuno ci stia inviando dei messaggi,” disse Kevin. Doveva farglielo capire.
La dottoressa Levin fece una pausa. “Volevo chiederti se fai riferimento alla teoria secondo la quale ciò che alcune persone pensano che le emissioni radio ad alta frequenza da una pulsar possano essere dei segnali riconoscibili, ma non è così, vero?”
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