Lì nella toilette femminile di una libreria del centro, Karina si guardò allo specchio mentre mormorava disperatamente: “Ho bisogno di aiuto”.
Zero si sedette sul bordo del letto matrimoniale e si strinse nervosamente le mani in grembo. Ci aveva già pensato molte volte, l'aveva provato mille volte nella sua mente. Eppure, era ancora lì.
Le sue due figlie adolescenti erano sedute sul letto vicino al suo. Erano in una stanza del Plaza, un hotel di lusso appena fuori Washington. Avevano deciso di dormire lì invece di tornare a casa a seguito dell'attentato alla vita del presidente Pierson.
“Vi devo dire una cosa”.
Maya aveva quasi diciassette anni. Aveva i capelli castani e i lineamenti del viso di suo padre, lo spirito acuto e il sarcasmo pungente di sua madre. Lo guardò passivamente, con un'ombra di preoccupazione.
“Non è facile da dire. Ma avete il diritto di saperlo”.
Sara aveva quattordici anni e viveva i conflitti dell'età in cui ci si avvicina alla pubertà. Aveva ereditato i capelli biondi di Kate e il suo viso espressivo. Assomigliava sempre di più a sua madre ogni giorno che passava, e al momento sembrava nervosa.
“Riguarda vostra madre”.
Entrambe ne avevano passate molte, erano state rapite e avevano assistito a omicidi e più volte era stata loro puntata la canna di una pistola in fronte. Nonostante tutto, erano sempre state forti. Meritavano di saperlo.
Perciò lo disse loro.
L'aveva provato tante volte nella sua mente, ma per lui era ancora difficile trovare le parole. Arrivavano lentamente, come tronchi alla deriva sul letto di un fiume. Pensava che una volta iniziato sarebbe stato più facile, ma non era affatto così.
Lì nell'hotel Plaza, mentre Alan andava a prendere le pizze e a pochi passi da loro una TV trasmetteva una sitcom, Zero disse alle sue figlie che la loro madre, Kate Lawson, non era morta per un ictus ischemico come tutti pensavano.
Era stata avvelenata.
La CIA l'aveva uccisa.
Per colpa sua. Dell'agente Zero. Per le sue azioni.
E la persona che l'aveva uccisa...
“Non sapeva nulla”, disse Zero alle sue figlie. Fissò il copriletto, il tappeto, qualsiasi cosa che non fossero i loro occhi. “Non sapeva chi fosse. Gli avevano mentito. Non lo seppe fino a più tardi. Fino a quando non ebbe compiuto il fatto”. Stava farfugliando. Stava accampando scuse per l'uomo che aveva ucciso sua moglie, la madre delle sue figlie. L'uomo che Zero aveva lasciato fuggire invece che ucciderlo.
“Chi?” La voce di Maya si fece roca, come un sussurro aspro, era più un suono che una parola.
L'agente John Watson. L'uomo che aveva salvato la vita delle sue figlie più di una volta. Un uomo che avevano conosciuto, a cui volevano bene di cui potevano fidarsi.
Il silenzio negli istanti successivi fu terribile, e a Zero sembrò una mano invisibile che gli stringeva il cuore. L'unità di aria condizionata della camera d'albergo si animò all'improvviso, forte come un motore a reazione nel vuoto.
“Da quanto tempo lo sai?” Il tono di Maya era diretto, intransigente.
Sii sincero. Questa era la posizione che voleva avere con le sue ragazze. Onestà. Non importa quanto male faccia la verità. Quella confessione era l'ultima barriera tra di loro. Sapeva che era tempo di abbatterla.
Sapeva già che le avrebbe distrutte.
“So da tempo che non è stato un incidente”, disse loro. “Non sapevo chi fosse stato. Ed ora lo so”.
A quel punto osò alzare lo sguardo e guardare i loro volti. Sara piangeva in silenzio, senza emettere alcun suono mentre le lacrime le rigavano le guance. Maya si fissava le mani, senza espressione.
Lui le prese la mano. Era l'unica cosa che aveva senso fare in quel momento. Per avere un contatto.
Ricordava esattamente cosa fosse successo. Mentre le sue dita si chiudevano attorno alle sue, lei si era allontanata con violenza. Si era girata ed era saltata giù dal letto. Sara aveva sussultato, sorpresa, mentre Maya gli diceva che lo odiava. Mentre gli rivolgeva i peggiori insulti. E lui era rimasto seduto, e se li era presi, perché era quello che si meritava.
Questa volta non accadde nulla di tutto ciò. Mentre le sue dita si chiudevano attorno alle sue, la mano di Maya si dissolse nella sua come nebbia.
“No...”
Cercò di raggiungerla, ma lei svanì sotto il suo tocco come una colonna di cenere nella brezza. Si voltò rapidamente e prese Sara, ma lei scosse solo la testa tristemente mentre anche lei si dissolveva davanti ai suoi occhi.
E rimase solo.
*
“Sara!”
Zero si svegliò di soprassalto, gemendo. Aveva un forte mal di testa. Era solo un sogno, un incubo. Un incubo che aveva avuto già mille volte prima.
Era andata sempre all'incirca così.
Zero aveva avuto un incredibile successo. Aveva evitato un tentato omicidio presidenziale. Aveva fermato una guerra prima che scoppiasse. Aveva scoperto una cospirazione. E poi lui e le sue ragazze erano andati al Plaza; nessuno di loro voleva tornare ad Alexandria, in Virginia. Erano successe troppe cose lì. Troppe morti.
Era lì che glielo aveva detto. Meritavano di conoscere la verità.
Ma poi se ne erano andate.
Era stato... quanto tempo prima? Quasi diciotto mesi, se ricordava bene. Un anno e mezzo fa. Tuttavia, quel sogno lo affliggeva quasi tutte le sere. A volte le ragazze evaporavano davanti ai suoi occhi. A volte urlavano contro di lui, maledicendolo con parole molto più dure di quelle che realmente avevano utilizzato. Altre volte se ne erano andate in silenzio, e quando le aveva raggiunte nel corridoio erano già svanite.
Sebbene il finale variasse, le conseguenze nella vita reale erano le stesse. Si svegliò dall'incubo con un forte mal di testa e il cupo, disperato ricordo che se ne erano andate davvero.
Zero si stiracchiò e si alzò dal divano. Non ricordava di essersi addormentato, ma non se ne stupì. Di notte non dormiva bene, e non solo per l'incubo delle sue figlie. Un anno e mezzo fa aveva recuperato i suoi ricordi, i suoi ricordi completi come Agente Zero, e con loro erano arrivati incubi terribili. I ricordi si facevano strada nel suo subconscio mentre dormiva o cercava di farlo. Scene atroci di tortura. Bombe sganciate su edifici. L'impatto dei proiettili su un cranio umano.
La cosa peggiore era che non sapeva se fossero reali o no. Il dottor Guyer, il geniale neurologo svizzero che lo aveva aiutato a recuperare i ricordi, lo aveva avvertito che alcuni ricordi avrebbero potuto non essere reali, ma un prodotto del suo sistema limbico che manifestava fantasie, sospetti e incubi come realtà.
Anche la realtà gli sembrava a tratti immaginazione.
Zero arrancò in cucina per prendere un bicchiere d'acqua, scalzo e intontito, quando suonò il campanello. Sobbalzò al suono, mentre ogni suo muscolo si irrigidì all'istante. Era ancora piuttosto nervoso, anche dopo tanto tempo. Lanciò un'occhiata all'orologio digitale sul fornello. Erano quasi le quattro e mezzo. Poteva essere solo una persona.
Lui aprì la porta e forzò un sorriso per accogliere il suo vecchio amico. “Giusto in tempo”.
Alan Reidigger sorrise sollevando un pacco di sei birre e tenendolo tra il pollice e l'indice. “Per la tua sessione di terapia settimanale”.
Zero sbuffò e si fece da parte. “Dai, ne usciremo insieme”.
Attraversò la casa e uscì su un patio da una porta a vetri. L'aria di metà ottobre non era ancora fredda, ma abbastanza pungente da ricordargli che era scalzo. Si sedettero su un paio di sedie a sdraio mentre Alan apriva due lattine e ne passava una a Zero.
Lui guardò l'etichetta, perplesso. “Che cos'è?”
“Non lo so. Il ragazzo del negozio ha dato un'occhiata alla mia barba e alla camicia di flanella e ha detto che mi sarebbe piaciuta”. Alan ridacchiò, fece scattare la linguetta e bevve un lungo sorso. Si irrigidì, stupito. “È ... diversa. O forse sto solo invecchiando”. Si voltò cupamente verso Zero. “Allora. Come stai?”
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