Nonostante l’espressione instupidita, la mente di Maya era freneticamente al lavoro. Ormai contava solo una cosa, e cioè la salvezza di Sara. L’uomo al volante era sveglio e in gamba, ma a un certo punto avrebbe vacillato. Se avessero continuato a fingere obbedienza lui sarebbe diventato compiacente, magari anche solo per un istante, e in quel momento Maya avrebbe agito. Non aveva ancora chiaro che cosa avrebbe fatto, ma sarebbe dovuta essere un’azione diretta, spietata e debilitante. Doveva dare a Sara l’occasione per scappare, per mettersi al sicuro, raggiungere altre persone e un telefono.
Con ogni probabilità il gesto le sarebbe costato la vita. Ne era consapevole.
Un altro lieve singhiozzo lasciò le labbra della sorellina. È sotto shock, pensò Maya. Ma poi il suono si trasformò in un mormorio e capì che Sara stava cercando di parlare. Chinò il capo verso la sua bocca per sentire la fioca domanda.
“Perché ci sta succedendo tutto questo?”
“Shh.” Le strinse la testa al petto e le accarezzò gentilmente i capelli. “Andrà tutto bene.”
Se ne pentì non appena l’ebbe detto; era una frase inutile, qualcosa che la gente diceva quando non aveva nient’altro da offrire. Era chiaro che erano nei guai, e non poteva prometterle che sarebbe finita bene.
“I peccati del padre.” L’uomo al volante parlò per la prima volta da quando le aveva costrette a salire sul furgone. Lo disse con tono noncurante e una calma spaventosa. Poi a voce più alta continuò: “Quello che vi sta succedendo è stato causato delle azioni e delle decisioni prese da Reid Lawson, altrimenti noto come Kent Steele, conosciuto a molti altri con il nome di agente Zero.”
Kent Steele? Agente Zero? Non aveva idea di che cosa stesse parlando quell’uomo, l’assassino che si chiamava Rais. Quello che invece ormai aveva capito era che suo padre era un agente al soldo di qualche agenzia governativa, l’FBI, o forse la CIA.
“Mi ha tolto tutto.” Rais guardava dritto davanti a sé verso la strada, ma il suo tono era di puro odio. “Ora io farò lo stesso a lui.”
“Ci troverà,” rispose Maya. Parlò a bassa voce, non piena di sfida ma come se stesse semplicemente esponendo un fatto. “Verrà a cercarci e ti ammazzerà.”
L’assassino annuì come se fosse d’accordo con lei. “Verrà a cercarvi, questo è vero. E cercherà di uccidermi. Ci ha già provato due volte lasciandomi per morto… una volta in Danimarca e una ancora in Svizzera. Lo sapevi?”
Lei non disse nulla. Aveva sospettato che il padre fosse stato coinvolto nell’attentato terroristico sventato un mese prima, a febbraio, quando una fazione radicale aveva cercato di far saltare per aria il World Economic Forum a Davos.
“Ma io sopporto,” continuò Rais. “Capisci, mi era stato fatto credere che uccidere tuo padre fosse il mio destino, ma mi sbagliavo. È il mio fato. Sai che differenza c’è?” Sbuffò piano. “Certo che no. Sei solo una bambina. Il destino è composto dagli eventi che dobbiamo compiere. Possiamo controllarlo e direzionarlo. Il fato, invece, è al di là delle nostre possibilità. È determinato da un altro potere, uno che non possiamo comprendere del tutto. Penso che non mi sia permesso di morire fino a quando non avrò messo fine alla vita di tuo padre.”
“Tu sei Amun,” disse Maya. Non era una domanda.
“Lo ero, un tempo. Ma Amun non esiste più. Ora io solo sopporto.”
L’assassino aveva confermato quello che lei aveva temuto, che era un fanatico, indottrinato dal gruppo terroristico simile a una setta chiamato Amun per credere che le sue azioni fossero giustificate, e persino necessarie. Maya era dotata di una pericolosa combinazione di intelligenza e curiosità e aveva letto molto sull’argomento del terrorismo e del fanatismo in seguito al bombardamento di Davos e ai suoi sospetti sul coinvolgimento del padre nella distruzione dell’organizzazione.
Aveva imparato che un uomo di quel tipo non si sarebbe fatto influenzare da suppliche, preghiere o scongiuri. Non avrebbe potuto fargli cambiare idea, e sapeva anche che non si sarebbe fatto problemi a fare del male a delle bambine. Quella scoperta non fece altro che rafforzare la sua decisione. Avrebbe dovuto agire non appena ne avesse avuto occasione.
“Devo usare il bagno.”
“Non m’importa,” rispose Rais.
Maya si accigliò. Una volta era riuscita a sfuggire a un membro di Amun su un pontile nel New Jersey fingendo di dover andare in bagno—non aveva creduto neanche per istante che si fosse trattato di membri di una gang come le aveva raccontato il padre—e in quel modo era riuscita a mettere Sara al sicuro. In quel momento era l’unica cosa a cui riusciva a pensare che concedesse loro un minuto da sole, ma la sua richiesta era stata respinta.
Viaggiarono per diversi minuti in silenzio, diretti a sud sull’autostrada. Maya accarezzava i capelli della sorella minore. La ragazzina sembrava essersi calmata e non piangeva più, ma forse aveva solo finito le lacrime.
Rais mise la freccia e curvò verso l’uscita. Lei sbirciò fuori dai finestrini e provò una piccola scintilla di speranza: si stavano per fermare in una stazione di sosta. Era minuscola, poco più di un’area da picnic circondata da alberi e un piccolo edificio basso con dei bagni, ma almeno era qualcosa.
Gli avrebbe permesso di usare il bagno.
Gli alberi, pensò lei. Se Sara riesce a nascondersi nel bosco, forse può distanziarlo.
Rais parcheggiò il pick-up e lasciò il motore acceso per un momento mentre studiava l’edificio. Maya fece lo stesso. C’erano altre due macchine, due case mobili parcheggiate in parallelo rispetto al palazzetto, ma non si vedeva anima viva. Davanti ai bagni e sotto una tettoia c’erano un paio di distributori automatici. Con sgomento notò anche che non c’erano telecamere, o almeno nessuna visibile, nei dintorni.
“Il bagno delle donne è sulla destra,” disse l’assassino. “Ti accompagno. Se provi a gridare o chiamare qualcuno, li ammazzerò. Se fai anche il più piccolo gesto o segnale a chiunque per comunicare che c’è qualcosa che non va, li ammazzerò. Il loro sangue sarà sulle tue mani.”
Sara aveva ripreso a tremare tra le sue braccia. Maya le strinse le spalle.
“Voi due vi terrete per mano. Se vi separate, farò del male a Sara.” Si girò per guardarle, fissando Maya in particolare. Aveva già indovinato che tra le due, era più probabile che lei gli desse dei problemi. “Mi avete capito?”
Maya annuì, distogliendo lo sguardo dai suoi selvaggi occhi verdi. Erano cerchiati di nero, come se non dormisse da diverso tempo, e i suoi capelli scuri erano tagliati corti in cima alla testa. Non sembrava tanto vecchio, di certo era più giovane di loro padre, ma non riusciva a capire quanti anni avesse.
Teneva in mano una pistola nera, la Glock che era stata in casa loro. Maya aveva cercato di usarla su di lui dopo che aveva fatto irruzione, e l’uomo gliel’aveva presa. “Questa sarà in mano mia, e io la terrò in tasca. Ti ricordo di nuovo che se causi problemi a me, li causi a tua sorella.” Indicò Sara con il capo. La ragazzina piagnucolò piano.
Rais uscì per primo dal pick-up, infilandosi la mano e l’arma nella tasca della giacca nera. Poi aprì la porta posteriore del veicolo. Maya emerse con gambe tremanti e appoggiò i piedi sul cemento. Tese una mano verso Sara e l’aiutò a uscire.
“Andate.” Le ragazze camminarono davanti a lui dirette verso il bagno. Sara rabbrividì; era la fine di marzo in Virginia e quindi la temperatura stava iniziando ad alzarsi, ma era ancora sui dieci o quindici gradi, ed entrambe erano in pigiama. Maya aveva un paio di infradito ai piedi, pantaloni di flanella a righe e una canottiera nera. Sua sorella portava scarpe da ginnastica ma niente calzini, pantaloni del pigiama in popeline decorati con disegni di ananas, e una delle magliette del padre, che era praticamente uno straccio tinto a nodi con il logo di una band che nessuna delle due aveva mai sentito.
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