“L’esplosione ci ha permesso di travolgere i nanobot che hanno contribuito alla trasformazione di centinaia di persone,” disse Ignazio, “ma possiamo ancora trovare una cura per una persona alla volta. Abbiamo solo bisogno di elaborarla.”
Luna vide Lupetto esitare davanti a quell’affermazione. Sembrava essere l’unica cosa ad avere quell’effetto su di lui.
“Puoi davvero farlo?” chiese.
“Non qui,” ammise Ignazio. “I danni procurati dalla battaglia sono ingenti, ma tutto ciò che mi serve è un laboratorio con la giusta attrezzatura, e qualche pezzo di macchinario specifico.”
“E nel frattempo dovremo stare tutti qui a tenere ferma Luna per evitare che ci ammazzi?” chiese Lupetto.
“Possiamo costruire qualcosa per rinchiuderla,” disse Barnaby. Sembrava che ci stesse già lavorando, sollevando pezzi di metallo dai resti di un trailer per motociclette come se potesse già vedere nella sua testa come assemblarli.
“E lei attirerà qui tutti gli alieni che si trovano anche a centinaia di chilometri da qui,” disse Lupetto.
Luna capiva quello che intendeva dire. Le creature che la controllavano avrebbero visto tutto attraverso i suoi occhi. Avrebbero saputo dove mandare rinforzi.
“Faremo tutto da soli,” disse Ignazio. “Glielo dobbiamo, Lupetto, e ti prometto che possiamo riportarla tra noi.”
Lupetto rimase fermo, ma Luna aveva visto che ormai aveva deciso. Forse avrebbe dovuto essere riconoscente che non intendesse ucciderla. Forse avrebbe dovuto provare della pietà per le dure decisioni che aveva già dovuto prendere. Invece tutto quello a cui poteva pensare mentre lo vedeva lì era che aveva avuto intenzione di ucciderla. Poco prima era stato davvero sul punto di ucciderla.
“Va bene,” disse Lupetto arretrando. “Va bene.”
Luna continuava a sbattere i denti e ringhiare, incapace di contenersi, contro la gente che la teneva ferma. Era in tutto e per tutto ciò che Lupetto temeva, ma era anche di più. Solo non aveva modo di farlo sapere alla gente. Poco più in là, Barnaby stava lavorando al serraglio progettato per contenerla. Sembrava una specie di gabbia, fatta con parti trafugate dal caos generato dalla battaglia.
Prese forma lentamente, con attenzione, un pezzo dopo l’altro. Man mano che la cella veniva preparata, Luna si sentì gradualmente andare a pezzi. Sentiva i ricordi che scivolavano via nei meandri del suo essere in un modo che le suonava fin troppo familiare. Lo aveva provato prima, la prima volta che era stata trasformata, con frammenti di sé che si perdevano non appena si concentrava su qualcos’altro, impossibili da afferrare, impossibili da trattenere, come pesci scivolosi che sfrecciavano via e le scivolavano tra le dita.
I ricordi dei suoi genitori si riversarono in una sorta di vaga consapevolezza, con Luna che era incapace di ricordare un solo momento con loro, un singolo istante passato a ridere a casa o a discutere per le faccende domestiche, o addirittura solo seduti insieme a mangiare. Luna sapeva quali fossero i fatti della sua vita, ma non riusciva a richiamarli alla memoria. Non riusciva a ricordare sul serio come fosse stato essere a scuola, o stare seduta a guardare la TV, o stare fuori, o…
… le venne in mente il volto di Kevin, così netto e perfetto da poter essere scambiato per una fotografia, e Luna si tenne stretta a quell’immagine con più forza possibile, come avrebbe potuto stare aggrappata a un palo durante un uragano. Non avrebbe perso Kevin, non si sarebbe lasciata sfuggire un singolo frammento del suo ricordo. Non avrebbe perduto i momenti trascorsi con lui. Quegli istanti sembravano essere scolpiti in lei, da quando era stata insieme a lui nell’Istituto della NASA, alla fuga nel bunker per sfuggire all’ondata di vapore, al tentativo di sconfiggere insieme gli alieni.
In qualche modo, c’era qualcosa di più luminoso in quei momenti, confronto al resto. Si stagliavano indelebili nella mente di Luna, e lei riuscì ad aggrapparvisi, tenendosi stretta ai pensieri di Kevin e di tutte le cose che provava per lui. Quel bisogno e quell’affetto sembravano come un faro nel buio che minacciava di avvolgerla.
“Portatela da questa parte,” esclamò Barnaby, e Luna sollevò lo sguardo vedendo che aveva completato la sua cella di contenimento. Era stato così veloce che questo bastò a ricordarle il suo talento quando si trattava di costruire qualcosa. Sembrava una struttura piuttosto grezza, ma il metallo era grosso e gli spazi tra le sbarre tanto piccoli che Luna non sarebbe riuscita a passarvi attraverso.
La portarono verso la gabbia, e il suo corpo continuò a lottare anche se la sua mente sperava che la gabbia fosse abbastanza resistente da contenerla. Sentì un suo piede che andava a sbattere contro la mandibola di un uomo, un gomito che sbatteva contro lo stomaco di qualcun altro. I colpi erano tanto forti da procurare di sicuro dei lividi o addirittura da rompere qualche osso, ma parve non sortire alcuna differenza. La maggior parte delle persone impegnate nel trasporto ora non erano membri dei Sopravvissuti, o almeno Luna non pensava che lo fossero. Avevano invece l’aspetto cencioso di chi era stato prima un trasformato. Sembravano desiderosi di darle una mano, anche se altri avevano paura.
La sollevarono e la lanciarono dentro alla gabbia. Luna non sentì l’impatto con il suolo. Si alzò invece subito in piedi e corse alla porta, ma neanche la sua sfrenata velocità le fu sufficiente per arrivarvi prima che il metallo sbattesse andando a chiudere la cella e i Sopravvissuti la chiudessero in modo sicuro.
Luna si scagliò contro le sbarre, testandone la forza. Le pulsanti istruzioni dell’Alveare le dicevano di liberarsi e uccidere, di fare quanti più danni potesse prima che loro la eliminassero, ma il metallo non cedette sotto le sue mani, neanche quando lei lo colpì tanto forte da far sanguinare le dita. Avrebbe dovuto sentire dolore, ma come tutto il resto, in quanto trasformata sembrava che ogni cosa accadesse come in un sogno, come se succedesse a qualcun altro.
L’unico problema era che quel qualcun altro era lei, e questo le avrebbe fatto male sul serio se Ignazio aveva ragione nel dire che l’avrebbe riportata indietro.
“Dove andiamo ad elaborare quello che abbiamo trovato?” chiese Leon ad Ignazio e Barnaby. “Ci serve solo un laboratorio, giusto?”
Luna tentò di distogliere lo sguardo. Non pensava che gli alieni stessero traendo conoscenze sui Sopravvissuti da lei, ma non aveva modo di saperlo per certo. Lupetto su quello aveva ragione: lei era una minaccia per tutti per ogni cosa che poteva vedere e sentire. Poteva attirare lì, come un faro, orde di controllati.
“Non basta un laboratorio qualsiasi,” disse Ignazio. “Ci servono attrezzature speciali. L’Università di sicuro le aveva, ma con l’attacco temo che possano essere sparite.”
“Allora dove?” chiese Leon.
Luna vide Ignazio scrollare le spalle e in quel momento capì che non c’era nessuna certezza. Ignazio aveva fatto intendere che il processo per riportarla indietro era semplice, ma ovviamente non sapeva effettivamente dove trovare quello che stavano cercando. Nessuno di loro ne aveva idea, e in qualche modo Luna sospettava di avere solo un tempo molto limitato prima che tutta se stessa scomparisse per sempre. Anche in quel momento poteva sentire il peso dell’infezione aliena che la opprimeva, cercando di schiacciare la sua essenza. Era come se dietro ci fosse nascosta una mano che si chiudeva lentamente su di lei per far succedere questa cosa.
“Ci sono dei posti che potrebbero avere ciò che ci serve,” disse Barnaby, indicando verso la città come una guida turistica. “Ci sono degli edifici industriali da quella parte, e se riusciamo a trovare un impianto chimico, lì ci sarà tutto quello che ci serve. Oppure possiamo andare da quella parte e vedere negli edifici più accademici. Oppure possiamo esplorare meglio l’interno dell’università e sperare che qualcosa sia sopravvissuto.”
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