Annie Vivanti - Naja tripudians

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Così, preparate ed agguerrite alla vita, si affacciarono le due bionde sorelline alla soglia della giovinezza. Con gli occhi limpidi come il vento guardarono in faccia all'avvenire.

IV

E la vita le salutò, tutta sorrisi. Le condusse, tenera come una mamma, gaia come una amica, pei mattinali sentieri dell'adolescenza.

Myosotis bionda, Leslie biondissima, vagavano fantastiche e sognanti in un mondo d'azzurre irrealità. Credevano ai miracoli e alle visioni, ai poeti e alle fate, agli angeli e agli umani.

Avevano l'abitudine gentile di parlare colle cose immateriali e inanimate.

– Buon giorno, primavera! – diceva Myosotis quando, uscendo al mattino, scorgeva in fiore gli alberi di mandorlo e di pesco.

– Buon giorno, sole, hai dormito bene? – chiedeva Leslie.

E alla luna nuova facevano sempre un inchino e molte raccomandazioni perchè portasse il bel tempo.

Al primo foraneve in Febbraio, alla prima violetta le bimbe facevano gran festa; e la prima rosa che si schiudeva nel giardino, la baciavano come se fosse un'amica tornata dopo lunga assenza.

– Non bisogna parlare colle cose inanimate – ammoniva Miss Jones.

– Inanimate? – chiedeva Leslie un poco stupita. – Siete certa che non hanno anima le rose?…

Miss Jones non ne era certissima.

E le bambine continuarono a salutarle.

Ingenua quanto loro o più di loro era la vecchia Jessie, già domestica in casa della loro madre allorchè questa era ancora signorina; ed ora, divenuta cogli anni bisbetica, brontolona e avara, era pregiata quale perla di gran prezzo dal dottor Harding, e temuta e adorata dalle due bambine.

Ma di tutti il più semplice, il più ingenuo, il più ignaro delle cose della vita era senza dubbio il dottor Harding stesso, nei cui ceruli occhi non fluttuavano che pallidi ricordi di cose passate, o vaghe nebulosità di astruse ricerche scientifiche.

La sua giovinezza egli l'aveva trascorsa tutta nei tropici. Medico nella marina inglese, il destino lo aveva gettato a ventidue anni sulle coste delle Indie orientali. Ivi, il suo spirito indagatore e pietoso era stato profondamente impressionato dalle mostruose malattie che affliggono le razze indigene dei paesi tropicali.

Alto magro taciturno passava come un dio biondo tra le popolazioni nere di laggiù, passava tra i mali senza nome, tra le piaghe e le pestilenze d'ogni sorta, curando, beneficando, studiando il modo di alleviare le febbri, il colera, la dissenteria; esaminando le orribili piaghe del mycetoma e la rossa escrescenza della framboesia che cresce come un mostruoso frutto di lampone sul volto e sulle membra delle sue vittime....

Ma più di tutto il giovane dottore si appassionava allo studio della lebbra. L'idea di scoprire una cura per quell'atroce flagello gli si era fissa nel cervello colla tenacità inflessibile d'una mania. Ben ricordava come per la prima volta gli era entrata nella mente questa idea.

Da quasi due anni, relegato con pochi marinai sulle coste del Malabar, occupato quale ufficiale a sorvegliare la condotta degli uomini che costruivano un canale irriguo, e quale medico a combattere e curare i casi di febbre tropicale e d'insolazione, egli da qualche tempo si sentiva assalito da un'inquietudine strana e febbrile. Era questa una febbre morale quanto fisica. Severamente allevato da suo padre, pastore evangelico scozzese, egli era di natura e per volontà casto di corpo e puro di pensieri. Ma ecco che verso sera, nell'ora di pace dopo la torrida giornata, sdraiato nell'amaca e gustando la fresca brezza del mare che sollevava la tenda della sua casupola, questa irrequietezza, questa tensione di nervi lo assaliva invincibile.

Davanti ai suoi occhi socchiusi ondeggiavano allora delle figure femminili. Talvolta era il ricordo di qualche sua bionda connazionale lontana; ma più spesso lo ossessionava la visione di qualche bruna indiana intravveduta lungo il giorno, sulla spiaggia o nella città vicina. Questi pensieri gli davano un vago senso d'inquietudine e di desiderio.

E quasi sempre, in quell'ora del tramonto, passava davanti al suo bungalow, rapida e silenziosa come un'ombra, una donna sconosciuta.

Alta, snella, velata di un manto azzurro che le copriva il capo, le ombreggiava il volto, e le avviluppava di pieghe armoniose tutto il corpo sottile, ella passava in quell'ora del crepuscolo, esile figura piena di poesia e di mistero.

Ella doveva pur essersi accorta di quel solitario europeo che, sdraiato nell'amaca, fumando, la guardava; poichè nel passare ella rallentava un poco il passo; indi, quasi con voluta civetteria, volgeva via il capo fasciato d'azzurro, come per meglio contemplare il mare....

Francis Harding la vide passare così tutte le sere; finalmente, una sera, la chiamò. Essa fuggì come una gazzella.

L'indomani quando il violento tramonto tropicale spennellava d'arancio e di viola il cielo, ella ripassò, e, come sempre, pur rallentando il passo quasi per farsi chiamare, volse il capo verso l'orizzonte non offrendo agli occhi del giovane che la sottile linea del capo, delle spalle, e delle esili anche. Ed egli con voce risoluta la richiamò.

Ella si fermò di botto e si volse a lui. Era distante forse venti passi, ritta sullo sfondo di quel cielo sfolgorante.

L'oriente rifletteva in una diffusa luce perlacea quel purpureo tramonto.

– Vieni qui, – diss'egli tendendo un braccio verso di lei. – Vieni qui. Voglio parlarti.

Ella non mosse d'un passo, ma deliberatamente, con gesto lento, solenne, quasi ieratico allargò le braccia che stringevano intorno alla persona e al capo il manto azzurro – e levò la faccia verso il cielo.

Orrore!…quel viso era maculato di larghe chiazze bianche....pareva che sulle guancie, sul naso, sulla fronte avesse nevicato....

Un grido di orrore e di pietà sfuggì alla gola dell'uomo. La donna, a capo chino, si allontanò rapida e sparì.

Di quell'incidente rimase per sempre a Francis Harding un brivido di terrore nelle carni. Ma un altro e più terribile ricordo egli doveva portar via dal suo soggiorno in quei tragici luoghi.

In quelle solitudini, lontano dalla civiltà e da ogni relazione sociale, egli aveva fatto la conoscenza d'un ingegnere francese arrivato laggiù per la costruzione d'una ferrovia. Non era certo una persona oltremodo simpatica, e in altre condizioni ed altri luoghi il timido e riservato Harding non avrebbe mai stretto amicizia con Jean Vital, egoista arrogante e amorale. Ma nelle deserte solitudini di quei luoghi, il sensuale libertino francese e il nordico asceta, affratellati dall'isolamento e dall'esilio, si confidavano ogni pensiero.

Così avvenne che Harding apprese da Vital, voluttuario impenitente, ch'egli aveva gettato gli occhi su una donna indigena convivente col quartier-mastro dei marinai inglesi. Era questa un bel tipo di donna color rame, dagli occhi languidi ed astuti sotto le palpebre socchiuse. Johnson, il quartier-mastro inglese che la teneva con sè, era dissoluto e brutale.

Un giorno il francese venne con aria soddisfatta e spavalda a trovare l'amico.

Ça marche! – esclamò ridendo; e gettandosi sulla sgangherata poltrona a dondolo, vanto e lusso del bungalow di Harding, incrociò le lunghe gambe nei pantaloni bianchi, trasse di tasca un sigaro e narrò al silenzioso dottore la sua fortuna.

– Iersera mentre quel bruto di Johnson era assente, sono andato davanti al loro bungalow e ho fischiato. Lei è uscita sulla porta.... e io subito, là.... à la six-quat'-deux! .... le ho schioccato un bacio sulla bocca.

– Siete imprudente, – disse Harding. – Se quella lo dice a Johnson!

– Bah! non lo dice, – fece Vital, soffiando verso il soffitto basso e nero una lunga boccata di fumo. – E poi, mio caro, in guerra e in amore, la fortuna è per il temerario. – E ridendo dell'aria preoccupata dell'amico, soggiunse: – E ne vuoi la prova? Stasera un sudicio monello negro m'ha seguito mentre lasciavo il cantiere. Credevo che volesse un soldo e gli ho applicato una pedata. Ma lui ha continuato a seguirmi. Allora ho capito che voleva dirmi qualche cosa.

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